Vita sociale


«La Cantina dei Santi» a Romagnano Sesia

Où Bayard a-t-il été inhumé?

«La Cantina dei Santi». La dizione è inusuale: apparentemente sembra sconfinare nell'irriverenza o derivare da spiritosaggine plebea.
Si tratta invece di un'ibrida giustapposizione verbale, indubbiamente strapaesana, che a Romagnano servì in tempi andati per localizzare entro la struttura millenaria dell'abbazia di S. Silvano quell'atrio o portineria o generico ambiente, stranamente paludato da un capo all'altro da colorite sequenze di pitture a fresco, e che venne poi sconsideratamente ridotto a cella vinaria.

Alla valutazione incolta o sbrigativa dei borghigiani tali figurazioni significavano tutt'al più un'anonima accolta di "santi", per ciò stesso devozionalmente imbarazzante; riuscivano peraltro a loro estranee, e furono ben presto obliterate, le motivazioni di tanto incomprensibile sperpero di "immagini sacre".
E queste, come s'è detto, furono lasciate poi alla mercé dei micidiali suffumigi di botti e di barili quando di quel locale se ne fece una cantina: per l'appunto la inequivocabile cantina dei Santi per chi ne avesse chiesto ubicazione o ragguaglio; e grazie all'infeltrirsi dei miceli fungini risultarono sempre pi snaturate le figurazioni interne: neppur più di santi, bensì, come suggeriva l'acume di intenditori locali, addirittura di crociati della Lega lombarda, qua e là appariscenti per elmo e corazza.
Al confronto si era mantenuta in ambito assai più corretto la lettura fornita da G. B. e Filippo M. Ferro, cultori d'arte, (vedasi Affreschi novaresi del Quattrocento, Novara 1972) che, volonterosamente, nonostante la presenza di muffe fungine e le pulverulenze della degenerazione microcristallina, vi individuarono le storie del giovinetto Silvano, martire sotto Marco Aurelio, il cui corpo sarebbe stato trasportato a Romagnano da Benevento per iniziativa di un locale marchese di casa arduinica.
E con lodevole valutazione artistica aggiungevano: «Si tratta senz'altro di un maestro di importazione, allevato sulle miniature colte cavalieresche e partecipe di una koiné gotica di gran respiro».
In certo senso appariva parallela la legenda intravista su una parete, stilata nei caratteri della minuscola gotica francese entro cui decifrando compariva il contrassegno paleografico del nome "Davide": richiamo, questo, inopinato e per nulla confacente alla cantina dei Santi.
Su incredulità, sfiducia e disapprovazione si inserì fruttuosamente la perizia dei restauratori Nicola di Aramengo nel 1975.
Man mano che, in virtù di una complessa serie di operazioni mirate ad un restauro conservativo, venivano rimossi sia il nerume depositato per anni sulla gran volta a botte e sulle pareti da candele e lucerne, sia le velature biancastre causate dalla disinfezione delle botti e dall'idratazione del gesso, rimarchevoli sulle pareti a livello del rozzo pavimento, si rendeva leggibile l'affrescata impaginatura a riquadri della vicenda biblica di Davide (in origine 28, dei quali otto ormai irrecuperabili): una vera sintassi d'impronta cavalieresca, esposta mediante una selezionata serie episodica, cronologicamente parallela al racconto del "libro di Samuele" (parte I e II), mutila delle quattro scene iniziali a causa delle abrasioni, curiosamente, o - come si dirà - intenzionalmente interrotta all'inizio dei suoi anni di regno.

A lavori ultimati, si poté anche constatare con quale criterio fosse stata condotta la "tappezzatura" a fresco di pareti e volta da un capo all'altro della "cantina": un risultato indubbiamente scenografico e, in subordine alle dimensioni del locale, accortamente ottenuto grazie all'economizzante accostamento delle figurazioni allineate nella vistosa parvenza di quattro grandi fasce longitudinali, ovviando alla discontinuità narrativa - conseguente a tali necessitate ripartizioni - con l'accortezza di alternare il verso delle sequenze figurate, onde ne derivasse una lettura "consecutiva" dei riquadri, principiando (e perché mai?) dal fondo del locale, a partire dalla fascia sinistra sull'alto della volta a botte.
Ma il dato allora affatto inspiegabile (o suggerimento indiziario al momento del tutto incompreso) era fornito dalle didascalie esplicative apposte ai singoli riquadri affrescati: infatti l'accurata ripulitura effettuata ne aveva ripristinata la leggibilità e soprattutto l'individuazione delle note tachigrafiche (segni abbreviativi, contrazioni, ecc.) che caratterizzano la matrice calligrafica della minuscola gotica libraria di Francia.

Frammisti, si evidenziarono errori lessicali ed alterazioni grafiche, indubbiamente derivanti da supina e frettolosa trascrizione da parte delle maestranze di una scrittura indubbiamente inconsueta, se non del tutto estranea.
Appena tracciate le incorniciature predisposte per ripartire adeguatamente la superficie intonacata, prima incombenza era apporre le didascalie nel loro bordo superiore: oltreché esplicative dei soggetti da affrescare, fungevano da opportuno richiamo mnemonico per procedere speditamente in una ordinata sequenza senza ulteriori intralci o svarioni.
Peraltro - già a detta dei restauratori - anche l'allestimento pittorico risultava condotto affrettatamente, come evidenziavano le delineazioni figurative talvolta sommarie, i tracciati prospettici alquanto improprii ed il ripetuto ricorso all'espediente dei cartoni.
Si tratterebbe dunque - anziché di un racconto biblico artisticamente soggettivato - di un ampliato rifacimento di illustrazioni: miniature o xilografe di indubitato stampo francese, assegnabili tra fine '400 e primo '500.
Costituiscono referenze cronologiche (limitandoci ai contrassegni elementari inequivocabili) i caratteristici copricapi con ampie tese a risvolto, la corona regale gigliata, la foggia delle armature, ossia: celate con ventaglia, goletta e rotella; spallacci; petti con resta e panziera (del sec. XVI); speroni a staffa con spronella a più punte (di fine sec. XV); acuminati spadoni cinquecenteschi con lama piatta a due fili ed impugnatura con elsa dritta e pesante pomo; e tra le immancabili armi in asta, picche lunghe del primo '500 frammiste a partigiane di fine '400.

Un insieme di figurazioni analogo al corredo illustrativo delle Bibles historiales o simili, edite in ambito francese e là circolanti avvalendosi del gerarchico imprimatur clericale, e non altrimenti.
Va qui rammentato quanto fosse allora crescente l'inquietudine inoculata in campo ecclesiologico, già a fine '300, dalle tesi di Wicleff, Huss e Wessel, miranti a svellere l'ufficialità della Chiesa da strutture e poteri giuridici, per rimpiazzarvi in termini luteraneggianti la sola scriptum, unica fonte di verità rivelata a cui attingere mediante l'ispirazione divinamente elargita ai singoli, prescindendo affatto dall'autocratico magistero ecclesiastico.
Codesta artificiosa disquisizione serve qui per rimarcare con quanta perplessità si debba congetturare quale bottega si sarebbe azzardata a sfornare una così prolissa sequenza scritturale senza incappare nelle panie inquisitoriali del tribunale diocesano, che peraltro non risulta abbia emesso alcuna licenza in merito, e tanto meno l'abate commendatario dell'epoca.
Rimane il quesito: per quale strano ed impellente motivo si sia operata una così sbrigativa celebrazione pittorica della vicenda di Davide, omesso (come s' detto) il conclusivo decennio regale.
Paradossalmente, proprio dalle figurazioni affrescate sulle pareti terminali della "cantina" - in apparenza non contestuali ed estranee al ciclo davidico - proviene un esaustivo chiarimento, seppure con la concisione di messaggio tipica del simbolismo araldico... non decifrabile con estemporanee interpretazioni.
Infatti, ad iniziare dalla faccia interna della parete d'ingresso, in alto campeggia uno scudo - descritto con specifica dizione -"palato di rosso e d'argento, con capo d'oro carico di aquila coronata di nero"; su entrambi i lati, tre rami sfrondati "accesi di rosso, posti in banda"; sotto a questi spiccano, con inconsueta collocazione, tra segni d'interpunzione le lettere • P • e • T • .

Tali lettere furono speditamente intese come iniziali di Pietro Tizzoni -signore di Crescentino commendatario dell'abbazia di S. Silvano negli anni 1452-87 - seppure risultasse vistosa la discrepanza cronologica, oltreché improponibile qualsiasi nesso tra codesta lucrativa conduzione abbaziale e l'approntamento (dispendioso) degli affreschi davidici.
Con distorta interpretazione, si ritenne altresì che bastasse a comprovare la presenza dei Tizzoni anche un pretestuoso accostamento tra i citati rami ardenti (significanti l'imperversare di una guerra) ed il contrassegno araldico dei tizzoni incombusti, ricorrente nelle insegne di quel casato unicamente quale esplicazione figurale della propria ispida altezzosità signorile, peraltro storicamente nota in area vercellese.
Tali tizzoni costituirono una figurazione aggiuntiva per l'originario blasone palato d'argento e d rosso, tipico del ceppo dei Tizzoni, tramandatoci da Marco Cremosano (Milano, 1611-1704: celebre araldista e regio coadiutore del notaio camerale nel Magistrato ordinario milanese) nella monumentale Galleria d'imprese, arme ed insegne di varii regni ducati provincie..., opera manoscritta con più riferimenti allo Stemmario Trivulziano del sec. XV.
Più tarda è l'elaborata arme dei Tizzoni di Vercelli, così descritta nell'ostica sinteticità della terminologia araldica: inquartata nel 1° e 4° d'oro all'aquila coronata di nero, nel 2° e 3° palata d'argento e di rosso, e scudetto carico di tre tizzoni [due neri e uno verde] accesi di rosso posti in banda; altrettanto composita e notevolmente variata è l'insegna ufficializzata nel 1613 dal Tizzoni marchese di Crescentino: anch'essa inquartata, per nel 1° e 4° d'argento a tre tizzoni [e. s.] posti in banda, e nel 2° e 3° palata d'argento e di rosso.
Basti questa digressione per appurare come sia stata persistente nello stemmario del casato la sequenza di pali d'argento e di rosso, che appare invertita nello scudo affrescato (di cui sopra), che indubbiamente merita tutt'altra attribuzione, non ai Tizzoni.
Già al tempo del restauro, come si principiò a meglio individuare sulla parete ammuffita i tratteggi ed i cromatismi, si era ipotizzato - e sembrava una spiritosaggine - che la ricomparsa palatura di rosso e d'argento (nell'elucidazione del Cremosano: "il rosso significa giustizia, amore, valore, forza; l'argento purità, verità, innnocenza") fosse la trascrizione figurata dell'arcinoto epiteto del chevalier sans peur e sans reproche: che si trattasse dunque del blasone del Baiardo, peraltro, come s' detto, significativamente affiancato dalle iniziali del suo nome (Pierre Terrail); blasone personale, dunque, ben distinto dall'insegna del casato dei Terrail, signori di Bayard: d'azur au chef d'argent, chargé d'un lion naissant de gueules, auflet d'or mis en bande, brochant sur le tout (Playne, L'Art hraldique..., 1645).
Se ne ebbe conferma non appena al di sotto dello scudo, ripulite le muffe, si profilò la sagoma felina di un leone rivoltato e scodato (nell'irridente significazione araldica: "ballonato e diffamato") e tra le zampe anteriori una strana figurazione ovoidale che poi si constatò essere quella di un otre di cornamusa, il tipico strumento tuttora in uso presso le truppe britanniche.

Il richiamo al Baiardo era dunque inequivocabile: nei trattati di araldica (ad es. Gourdon de Genouillac, Recueil d'armoiries...) si rammenta che un'impresa (per lui onorifica, e beffarda per gli Inglesi) gli fu conferita da Luigi XII con tale figurazione irridente per aver in modo plateale raggirato in Fiandra un ufficiale britannico; ed Enrico VIII era rimasto talmente sorpreso della compita arditezza del Baiardo da proporgli segretamente di passare al proprio servizio.
Affiancata al leone rampante sta affrescata un'aquila nera, fregiata di corona comitale e artigliante un nodoso ramo "acceso di rosso", che si riallaccia ai sei rami, parimenti "accesi di rosso", posti lateralmente allo scudo palato di rosso e argento, che sappiamo del Baiardo.

L'insieme, indubbiamente non casuale, di tali simboli araldici costituisce l'implicito riferimento cronologico ad una vicenda in cui si trovarono coinvolti il Baiardo {lo scudo palato di rosso e d'argento), i sei belligeranti confederati nella Lega Santa (i sei rami accesi di rosso) ed il connestabile conte Carlo di Borbone, suo comandante supremo (l'artigliante aquila nera).Volendo congetturare quando si sia realizzata tale singolare concomitanza, si prospetterebbe unicamente l'anno 1524: data fatale per il Baiardo.
E la conferma che codesta congettura esatta proviene dalla parete di fondo della cantina: sebbene si presenti troppo sgualcita per un'appagante lettura d'insieme - in più parti è abrasa persino l'originaria intonacatura dei frescanti - tuttavia dalla combinazione di residue parti affrescate è correttamente ravvisabile quale fosse in origine lo schema iconografico.
Mario Crenna, Où Bayard a-t-il été inhumé?, Bollettino Storico per la Provincia di Novara, IC [2008]
ivi, apparato iconografico

La Cantina dei Santi a Romagnano Sesia
ovvero “il sito dei fraintendimenti”

Affrontare l’indagine nella cosiddetta Cantina dei Santi nei suoi aspetti più qualificanti e significativi, se può apparire affascinante, è tuttavia impresa tutt’altro che facile per la scarsità di fonti storiche ed archivistiche disponibili e, soprattutto, per le difficili interpretazioni.

Nonostante questa prudenziale considerazione, nel volume L’Abbazia di San Silvano (edito nel 2000 a cura del Comune e della Parrocchia di Romagnano Sesia) l’autore si è prodigato in volonterose argomentazioni intese a illustrare quel locale situato nella contrada denominata Badia, per l’innanzi troppo succintamente descritto «col suolo di gierone, muri e volto di cotto dipinti». E – com’era purtroppo prevedibile – non sono mancati i fraintendimenti bastanti per azzerare il già smarrito significato contestuale della serie di figurazioni l affrescate.

Mario Crenna illustra il ciclo pittorico

Può infastidire l’enumerarli, ma assai più increscioso è il constatarne l’equivocante persistenza, supinamente avallata ed agevolata dai “passaparola” del web. Non dovrebbe perciò riuscire inopportuna – benché tardiva – una loro critica rassegna...
Mario Crenna, «La “Cantina dei Santi” a Romagnano Sesia ovvero “il sito dei fraintendimenti”», Bollettino Storico per la Provincia di Novara, C, [2009]