Recensioni e Segnalazioni

Ricerca del Rinascimento. Principi, città, architetti

Nel 1949 comparve un breve libro di Rudolf Wittkower, Principi architettonici nell'età dell'umanesimo, uno studio sull'architettura rinascimentale e sulla sua teoria da Alberti a Palladio, e in particolare sull'idea delle proporzioni musicali in campo architettonico: un'opera molto warburghiana, un attacco a una concezione puramente estetica dell'architettura, qui interpretata viceversa nella più vasta ottica delle grandi questioni della storia religiosa e culturale. Con il suo voluminoso e astruso apparato di note e di diagrammi geometrici, nelle previsioni dell'editore il libro non era destinato a vendere più di 500 copie: ebbe invece numerose edizioni, fu tradotto in tutte le lingue europee e fissò per due generazioni i termini di una disciplina, la storia dell'architettura.

Il magistrale libro di Tafuri è il Wittkower degli anni novanta. Qui l'autore delinea un nuovo genere storiografico facendo piazza pulita degli abituali confini tra storia, architettura, cultura e scienza in un modo che lo apparenta agli umanisti di cui si occupa, per i quali le “litterae” erano un tutto unico comprendente la teologia, la letteratura, l'arte, l'ingegneria e il recupero del mondo classico.

Tafuri è comunque anche uno storico dell'architettura, dotato di una grande capacità di leggere i disegni e di un'autentica passione per l'aggiornamento bibliografico: il suo libro offre penetranti analisi dell'architettura di Raffaello, di Antonio da Sangallo il Giovane, di Peruzzi, di Serlio, di Jacopo Sansovino, di Palladio, di Giulio Romano, ma si occupa anche di Borromini e di Guarini, di Wren e di Perrault; imperniato su Roma, Firenze e Venezia, si spinge fino a Milano, a Genova, a Granada.
Quello di Wittkower era un libro polemico, e lo è anche questo, che non risparmia neppure il suo grande predecessore. Con Tafuri lo studioso assume la forma mentis del contestatore: va alla ricerca delle correnti sotterranee di ribellione, dei complotti e delle rivolte, dell'opposizione alle strutture del potere e soprattutto delle critiche radicali alle ideologie dominanti; si oppone agli studiosi che si contentano di trovare nella storia "tranquillizzanti congruenze" approvando invece chi, come lui, cerca le "crepe e divaricazioni" e tenta "di opporre scogli problematici alle visioni unilineari della storia".

De Re Aedificatoria
Incipit - Editio Princeps 1485

Come già per Wittkower, anche per Tafuri quella di Leon Battista Alberti è una figura centrale, ma è un Alberti molto diverso, più scettico nei confronti degli assolutismi e della retorica del potere, e insofferente del suo ruolo al servizio dei principi. Contro la tesi dominante secondo cui Alberti fu consigliere del programma edilizio del papa umanista Niccolò V, Tafuri si propone di abbattere il “mito della consulenza albertiana”, mostrando non solo che il progetto del Borgo vaticano non si accorda con le teorie di Alberti, ma anche che l'“amplificatio” retorica del progetto stesso, quale lo conosciamo dalla descrizione di Manetti, è esattamente ciò che l'artista nel dialogo Momus condanna come vana magnificenza. Anche Niccolò V non è qui il papa umanista e disponibile, ma il Papa Re che con il suo programma di magnificenza retorica cerca di inculcare nelle masse l'auctoritas papale: i termini “terribilità” e “terrorismo” ricorrono spesso nelle pagine che Tafuri dedica al linguaggio architettonico classico. A questo programma papale l'Alberti di Tafuri non può opporre che l'ironia dell'umanista e la dissimulazione del cortigiano: “esprit fort avant la lettre”, campione di un ideale greco dell'umana limitazione di “mediocritas, concinnitas e finitio” della bellezza come sola difesa degli edifici contro le devastazioni dell'uomo e del tempo.

L'Alberti è qui l'intellettuale scettico del Momus, il cui grande trattato di architettura, De re aedificatoria, non è separabile - avverte Tafuri - dalla sua "tormentata opera letteraria", testimonianza di una "grandiosa e tragica consapevolezza dei limiti della téchne e dell'arbitrarietà delle norme".
Dopo la Roma di Niccolò V e di Alberti, ecco la Firenze di Lorenzo il Magnifico, la Roma di Leone X, la Venezia dei primi anni del XVI secolo, in una trattazione che è sull'urbanistica non meno che sull'architettura. Non è certo impresa da poco padroneggiare la bibliografia e integrarla con ricerche d'archivio su queste città, ma Tafuri le affronta tutte e tre, ricorrendo alla realtà di ognuna di esse per spiegare le altre in un'ottica comparativa che è un “invito a moltiplicare le analisi comparate, onde evitare, insieme alle generalizzazioni, la chiusura in studi localistici”.

Nuova luce viene gettata su questioni vecchie: la competenza architettonica di Lorenzo il Magnifico, i suoi rapporti con Giuliano da Sangallo (paragonati a quelli fra Trissino e Palladio), la nascita di uno stile architettonico mediceo a Firenze e il suo trapianto nella Roma di Leone X con la progettazione, nel 1513-16, di una grande “urbs medicea” intorno a Palazzo Medici (oggi Madama), la Sapienza, un'ampia piazza medicea destinata a collegare il palazzo con la via di Ripetta, mentre grandiosi portici avrebbero assicurato il collegamento con piazza Navona (il modello è il complesso ippodromo-palazzo di Costantinopoli).

Pirro Ligorio
Antiquae urbis imago

Tafuri vede via di Ripetta come la strada umanistica tesa tra i due poli della carità (l'ospedale di San Giacomo degli Incurabili) e della cultura, e fa risalire l'impianto della Sapienza non a Della Porta o a Ligorio ma a Bramante, rintracciandone la fonte nell'antico Tempio di Romolo sulla Via Sacra del Foro Romano, annesso alla chiesa dei Santi Cosma e Damiano (i santi medicei). Nella sua analisi delle strade diritte tagliate nel tessuto urbano nei pressi di piazza del Popolo e ponte San Angelo, il caratteristico bivium imposto alla città da Giulio II, Leone X e Clemente VII, Tafuri rintraccia un ideale castiglioniano, una sorta di "sprezzatura a scala urbana", fatta propria dalle classi medie dei banchieri e degli artisti vicini alla corte (Raffaello e Sangallo) che avevano scelto di vivere in case classicheggianti all'interno del nuovo sistema di "cannocchiali viari".

Poi, dopo la ricchezza visuale della Firenze medicea e della Roma papale, la doccia fredda di Venezia, la grande resistente, la città dei silenzi significativi, capace di accettare qualunque linguaggio ma non quello assoluto dell'antichità romana. L'immagine globale di Venezia era così forte da scoraggiare le iniziative urbanistiche individuali e, soprattutto, ogni progetto di sviluppo della città: dominava il culto della continuità dato che in un'utopia già considerata miracolosamente perfetta si potevano operare cambiamenti solo aggiungendo qualcosa oltre i confini.
Tafuri prende in esame gli ampliamenti tardomedievali e rinascimentali: la punta di Sant'Antonio di Castello, dove fu avviato e poi abbandonato un piano alla Bramante per la costruzione di un ospedale centrale; gli sviluppi intorno a Sant'Andrea della Dirada e a Santa Maria Mazor; le Fondamenta Nuove, opera non nobiliare e così diversa da ciò che altre città costruivano ai propri confini (si pensi soprattutto alla Strada Nuova di Genova).

Jacopo De Barbari - Venetie MD

Tafuri è particolarmente attento a cogliere gli atteggiamenti di rifiuto del nuovo linguaggio architettonico ogni volta che si manifestano: per esempio le critiche e le derisioni di cui fu oggetto il Palazzo Bartolini-Salimbeni di Firenze. Come al solito, la resistenza al nuovo era forte soprattutto a Venezia. Tafuri ricorda la bocciatura di un progetto di fra Giocondo per un foro greco da costruirsi intorno a Rialto dopo l'incendio del 1514, la mancata realizzazione di quello di Jacopo Sansovino per il palazzo di Vettor Grimani sul Canal Grande, e il rifiuto di un progetto di Palladio per il ponte di Rialto, ispirato a una polemica non-venezianità. Sono molti gli storici che sanno interpretare il linguaggio dell'architettura, assai meno quelli che ne sanno interpretare i silenzi significativi: Tafuri chiude il suo saggio con l'esempio delle case di Leonardo Moro a San Girolamo a Venezia, costruzioni di grande semplicità in cui il committente fa sfoggio di aristocratica modestia e l'architetto, Sansovino, sostituisce alla nuova maniera d'importazione uno sconcertante elementarismo, un netto rifiuto di adottare il nuovo linguaggio retorico dell'antichità, una deliberata afasia.
Le pagine migliori del libro sono tuttavia quelle dedicate non all'architettura che tace, ma a quella che parla. Così dalla volontà di Leone X di presentarsi come “vir doctus, integer et piùs”, come il papa destinato a estinguere l'incendio della guerra appiccato dal suo predecessore Giulio II, nasce il motivo della loggia serliana utilizzato da Raffaello nell'affresco dell'Incendio di Borgo, in cui il papa spegne le fiamme con “una benedizione assoggettante quanto taumaturgica”.

Guiliano Da Sangallo
Disegno per San Lorenzo

Questa stessa serliana ricompare nella maggior parte dei disegni presentati al concorso per la facciata di San Lorenzo nel 1515-16: i progetti presentati da Sangallo, da Raffaello, da Giulio Romano e da Sansovino sono qui ricostruiti con grande cura filologica e interpretati come un tentativo di conservare il senso di trionfo che aveva caratterizzato l'ingresso di Leone X nel 1515, quando Firenze fu spazzata da un vento di entusiasmo per le colonne e almeno per qualche tempo ripudiò la propria tradizione gotica: la columnatio diventa il simbolo della nuova visione monarchica, del mondo delle corti e dei cortigiani, sia negli addobbi temporanei sia nell'architettura vera e propria.

Un'analisi come questa è possibile solo perché l'autore ha alle spalle un minuzioso e delicato lavoro nel campo della conoscenza e della filologia del disegni, così Tafuri riconosce il progetto di Raffaello per San Lorenzo in una copia e quello di Sansovino in una stampa settecentesca, con occhio espertissimo rintraccia i sottili legami stilistici tra Botticelli e Giuliano da Sangallo, tra Andrea del Sarto e Sansovino, analizzando il concorso del 1518-21 per San Giovanni dei Fiorentini a Roma contrappone la critica radicale del Pantheon in Sangallo e l'esasperato sperimentalismo di Peruzzi, il ricorso a motivi di stile antico in Giulio Romano e in Sangallo, il più giocoso e il più ciceroniano degli architetti. Il filo rosso che percorre tutti quanti i progetti è il gemellaggio di Firenze e Roma, del Tevere e dell'Arno, di San Giovanni dei Fiorentini in riva al fiume e del nuovo San Pietro oltre il Tevere.Attraverso il controllo architettonico passava il controllo del sentimento religioso e politico. Tra i disegni di Antonio da Sangallo è conservato un progetto per la ricostruzione della chiesa domenicana di San Marco a Firenze sulla base di un modello centralizzato di tipo romano, con una facciata di "superba magnificenza" e una grande cupola a pagoda che anticipa quelle di Guarini. Sangallo lavoravo a stretto contatto con i Medici, che erano proprietari del vicino giardino e da tre generazioni avevano rapporti molto stretti con il convento: Cosimo aveva istituito i Domenicani Osservanti a San Marco nel 1436 e Lorenzo si era adoperato per farvi trasferire Savonarola da Ferrara nel tentativo di porre il convento alla testa della spiritualità fiorentina con tutto il prestigio che ne sarebbe derivato ai Medici. Ora, dopo l'esilio e il ritorno nel 1512 essi erano intenti ad estirpare il mito savonaroliano e tutte le attese millenaristiche ad esso legate, e l'architettura veniva posta al servizio del potere della famiglia. Ma Tafuri va oltre e mostra come nel clima fortemente intellettuale del mecenatismo mediceo la pianta centrale diventi un giocattolo, un gioco geometrico imposto al contesto cittadino: “la centralità perde il suo carattere terroristico, si fa spettacolo”.

Antonio Da Sangallo il Giovane
Disegno per San Pietro

A Roma l'età leonina, così come il programma edilizio dei papi, ha lasciato dietro di se progetti e ruderi, ma ben pochi edifici poiché a una “magniloquenza che sfiora l'utopia” si accompagnavano continui cambiamenti di programma, con reiterate interruzioni e ridimensionamenti delle ambizioni iniziali. Il fallimento del papato leonino, evidente in campo politico, è rispecchiato dall'architettura: l'oscillazione tra Francia e Impero non permette di adottare una politica estera coerente; i rapporti pacifici con il Popolo Romano si rivelano illusori; le nuove strutture urbane e le riforme territoriali non vengono realizzate.

Le riforme economiche si rivelano un fallimento totale, l'apertura ad Erasmo produce solo la ferocia polemica del Ciceronianus, scritto con penna intinta nel veleno dopo che il sacco di Roma ha distrutto l'idea di Roma “communis patria” sostituendola con l'insultante definizione di Roma “coda mundi”. Con il papa romano Paolo III c'è un ritorno alla magnificenza del passato, e ancora una volta !a città viene ridisegnata secondo criteri di grandiosità scenografica, ma è “una magnificenza in gran parte compensativa”, non diversa da quella che caratterizzerà l'attività costruttiva papale nel periodo barocco.Le note, testimoniano di una enorme erudizione nel campo non solo della storia dell'arte, ma anche della storia politica e sociale, dell'estetica e della teologia.Si trova in esse la bibliografia in sei lingue su decine o centinaia di interessanti questioni rinascimentali: l'estetica del Castiglione, il problema della maniera in architettura, la fortuna critica del Pantheon, l'idea del tempio etrusco nel Rinascimento, il colore e la rifinitura degli edifici rinascimentali, l'armonia del mondo e la teoria della proporzione, il governo fiorentino durante e dopo il dominio dei Medici, le ville e i progetti urbanistici di Lorenzo il Magnifico, le imprese, gli ingressi trionfali e l'architettura provvisoria, i banchieri fiorentini a Roma, la critica erasmiana del papato, la scalinata rinascimentale, la costituzione veneziana, l'idraulica della laguna di Venezia e molte altre.Tafuri è l'unico filosofo capace di affrontare l'analisi filologica puntuale, uno dei pochi filologi capaci di fare della filosofia e uno dei migliori tra gli storici dell'architettura capaci di navigare sulle acque profonde della storia religiosa e sociale. In ogni capitolo l'autore si pone la domanda "Quali parametri consentono di ampliare lo spettro delle analisi verificabili?", dove "verificabili" è la parola chiave: Tafuri non vuole solo stimolare ma anche convincere, non solo interpretare ma anche dimostrare. Ed ecco allora la sterminata bibliografia in nota, il lavoro certosino in tanti archivi, l'attenta lettura di tanti disegni architettonici.Il Rinascimento di Wittkower, con le sue leggi della proporzione e le sue certezze cosmiche, diventa nella ricostruzione di Tafuri una cultura le cui parole d'ordine sono dissimulazione e sprezzatura al servizio di una “cultura del fittizio”: il suo “lungo Rinascimento” è una "stagione colturale oscillante fra bisogni di certezza e slanci verso l'infondato". Che una visione così inquietante sia basata su una solida struttura documentaria è il grande merito di questo libro straordinario.

Joseph Connors
[L'Indice 1992, n.08]