Conversazioni d'archivio

Storie di vittime della Battaglia di Novara del 23 Marzo 1849
Attraverso le carte dell’Archivio di Stato
23 marzo 1849. I feriti della battaglia di Novara.

Paolo Cirri - 15 febbraio 2011

Paolo Cirri con un figurante del Gruppo Storico Risorgimentale

Di una battaglia, gli storici analizzano solitamente l’evento in se stesso, con la sua genesi politica e lo svolgimento tecnico tattico delle azioni, esaminando poi le conseguenze che l’evento bellico ha avuto, da un punto di vista sociale, storico o politico, a livello nazionale o internazionale.
Anche per la battaglia di Novara le analisi fatte dagli storici, anche a livello locale, hanno riguardato questi aspetti.
È risultata quindi insolita e interessante la relazione presentata, presso l’Archivio di Stato di Novara, da Paolo Cirri, consigliere della Società Storica Novarese e della Associazione Amici del Parco della Battaglia, che ha invece puntato la sua attenzione sulle conseguenze degli accadimenti bellici, sui singoli soldati, che furono feriti in quella occasione.
L’occasione di questa ricerca è stata offerta allo studioso dalla presenza, presso l’Archivio di Stato, di faldoni, versati dall’Ospedale di Novara, contenenti le schede mediche compilate, per le degenze dei feriti della battaglia del 23 marzo 1849, che ci mostrano, col crudo realismo del documento burocratico, le tristi vicende dei soldati feriti.
Le schede, compilate ovviamente molto sommariamente, dato il gran numero di ricoverati, non riportano, nella gran parte dei casi, i dati personali richiesti dal formulario, ma si limitano a dati identificativi, nome grado e reggimento di appartenenza, riportando poi, sinteticamente la storia sanitaria del ricoverato, con il tipo di ferita, l’esito e la data della dimissione o, molto frequentemente, del decesso.

Il figurante sulla destra indossa una fedele ricostruzione della divisa di un ufficiale medico dell'esercito sardo

Nella prima metà dell’Ottocento, l’assistenza sanitaria era, in generale, estremamente deficitaria, per le condizioni ancora arretrate della medicina ma era ancor di più carente nell’esercito sardo che non disponeva di un vero e proprio servizio sanitario organizzato.
Per ogni reggimento (circa 1800 uomini suddivisi in tre battaglioni) erano presenti tre o quattro ufficiali medici che disponevano, sul campo di battaglia, solo di un modesto equipaggiamento d’emergenza (bisturi, pinza e pinza a tre punte per l’estrazione di pallottole) contenuto in un tascapane, portato a tracolla.
Non esistevano ancora ospedali da campo ed i feriti venivano portati, dai commilitoni, nelle retrovie, a braccia o su rudimentali barelle e venivano avviati, su carrette da sei-otto posti, ai punti di raccolta più vicini, in conventi, cascine o chiese, dove ricevevano un primo soccorso, per essere successivamente portati agli ospedali cittadini.

Giovanni Fattori. Il Campo italiano alla battaglia di Magenta, 1861-1862
Galleria d'Arte Moderna, Firenze

In occasione della battaglia di Novara, che ebbe il suo epicentro alla Bicocca, quindi relativamente vicino alla città, la maggior parte dei feriti fu inizialmente avviata all’Ospedale Maggiore (965 feriti registrati), subito dopo furono occupati i locali del seminario dei gesuiti, attuale Convitto Nazionale (766 feriti), il seminario maggiore (332 feriti) e la caserma degli invalidi, al quartiere di San Paolo, dietro la chiesa di Ognissanti (circa 400 feriti) e, non bastando ancora lo spazio, altri 340 soldati, bisognosi di cure, furono ospitati nelle chiese di Sant'Eufemia e di Santa Maria del Rosario (immortalata da una celebre stampa) più una sessantina di altri militari divisi fra il collegio Gallarini, l’Istituto Bellini e l’Ospedale di San Giuliano, per un totale ufficiale (ma probabilmente inesatto per difetto) di 2.858 ricoverati piemontesi più altri 250 austriaci.
A questi numeri, già notevoli, vanno aggiunti almeno quattrocento militari feriti in modo più lieve e medicati direttamente sul campo di battaglia ed almeno un centinaio di ufficiali, che furono ospitati in alberghi o anche in case private. Bisogna infatti considerare che la maggior parte degli ufficiali apparteneva alla nobiltà piemontese ed aveva probabilmente legami di parentela o di amicizia con molte famiglie novaresi.
Il generale Perrone di San Martino, colpito alla fronte da una pallottola presso la tenuta della Farsà, fu trasportato all’albergo della Posta, dove rimase in agonia per alcuni giorni, tanto che la moglie poté raggiungerlo da Torino prima della morte.
Ben più triste e precaria la condizione dei feriti di truppa che, depositati in posti di ricovero affollati, su pagliericci di fortuna, pur se amorevolmente assistiti (numerose donne novaresi ricevettero encomi per le cure prestate ai feriti) vivevano la loro degenza in un ambiente scomodo e malsano e la sopravvivenza dei feriti era più una questione di fortuna che altro.
Per capire l’alta mortalità fra i feriti occorre considerare le pessime condizioni della vita militare; l’alimentazione non era delle migliori, l’addestramento era assai pesante, e anche le condizioni psicologiche di questi giovani, obbligati a una leva di quattordici mesi lontano dalle famiglie, erano assai pesanti; anche le divise militari, così appariscenti e coreografiche nelle sfilate, con ornamenti e pennacchi, erano fatte con un panno ruvido e molto pesante perchè doveva servire a riparare il soldato anche nel caso, assai comune nel corso delle operazioni belliche, in cui fosse necessario dormire all’adiaccio, senza neppure la protezione delle tende; così era avvenuto infatti anche alla vigilia della battaglia, con un tempo piovoso ed anche freddo (il giorno seguente i campi erano addirittura coperti di nevischio).
Va da se che le condizioni igieniche dei soldati alla vigilia della battaglia fossero assai precarie: stanchi, stressati e malnutriti erano rimasti a dormire all’aperto per giorni, senza neppure avere la possibilità di pulirsi e con le divise impregnate di fango e sudore. Facile capire come, in queste condizioni, ogni ferita, anche relativamente piccola avesse alte possibilità di infettarsi.
La battaglia di Novara fu principalmente combattuta fra eserciti che si fronteggiavano a distanza, con scontri corpo a corpo relativamente contenuti, quindi la maggior parte delle ferite, come si evince anche dalle schede sanitarie, erano ferite di arma da fuoco.
I fucili dell’epoca sparavano pallottole sferiche di piombo, principalmente con un calibro di cm 1,7, quindi proiettili che erano in grado di frantumare le ossa, particolarmente quelle di braccia e costole, entro una portata di 90 -120 metri; anche a distanza maggiore la pallottola si inseriva nei tessuti molli e, essendo di piombo, era causa, se non rimossa, di intossicazioni, inoltre la pallottola, entrando, trascinava con se frammenti del tessuto della divisa che, sporca com’era, infettava in profondità le ferite con conseguente cancrena.

Palla di cannone da 8 libre

I cannoni sparavano proiettili pieni di un peso fra i tre e gli otto kg ed erano ovviamente letali, anche a grande distanza, fino a 1200 metri circa, ma ancora a due chilometri di distanza, rimbalzando a terra, sulla fine del loro percorso, conservavano la forza di frantumare un piede. Micidiali erano poi le granate, proiettili cavi in metallo con esplosivo interno, che spargevano una pioggia di schegge metalliche che avevano un effetto devastante sulle persone investite dall’esplosione.
Fra i feriti da schegge di granata vi fu Carlo de Robilant, allora ventitreenne ufficiale di artiglieria, di nobile famiglia torinese, originaria di Varallo, che fu ferito in uno scontro, con il 4’ corpo d’armata austriaco proveniente da Confienza, presso la cascina Santa Marta.
Il Robilant ebbe un braccio maciullato ma ebbe la fortuna di salvarsi, tanto che rimase nell’esercito, facendo poi una brillante carriera diplomatica; ma il suo fu un caso fortunato; spesso la ferita veniva infettata e andava in cancrena causando una morte lunga e dolorosa.
Fra le schede sanitarie vi è quella di Luigi Lorenzini, ricoverato all’Ospedale Maggiore, raggiunto il 9 aprile dalla madre, che ebbe il permesso, allegato alla scheda, di assisterlo fino alla dismissione dall’ospedale. Permesso accordato ben sapendo che la morte sarebbe presto sopravvenuta: il Lorenzini morì infatti due giorni dopo.
Minori i casi, come già detto, di ferite d’arma bianca, particolarmente temute dai soldati, non tanto quelle da sciabola quanto quelle inferte dalle baionette, micidiali lame a sezione triangolare che entravano in profondità nei polmoni o nel ventre con il loro carico di germi e causando, quando non erano immediatamente mortali, una lenta e dolorosissima morte per setticemia.
Le schede ci evidenziano anche un buon numero di decessi non imputabili direttamente alle ferite ma alle precarie condizioni di ricovero; esemplare il caso di Bruno Boggio, artigliere, ricoverato per ferita da granata e amputato della gamba sinistra il 23 marzo. La ferita del Boggio non si infettò ed egli si sarebbe avviato a guarigione. Purtroppo le finestre dell’ospedale venivano spesso lasciate aperte per consentire un ricambio dell’aria, viziata dalla presenza di tante persone, affette da piaghe; l’aria gelida fu la causa scatenante di una polmonite che portò il giovane alla morte l’8 di aprile.
Gli arti colpiti venivano perlopiù amputati e l’amputazione veniva effettuata con seghe, senza alcuna anestesia, in modo dolorosissimo, e con conseguenze terribili anche per quelli che si salvavano.
Nell’ottocento infatti, nell’esercito di leva, la condizione dei reduci mutilati era drammatica; questi uomini, già contadini richiamati alle armi, venivano restituiti invalidi alle comunità di origine, che dovevano farsene carico, trovando loro un posto in famiglie che spesso non erano economicamente in grado di sopportare il peso morto di un componente inabile al lavoro.
Spesso era la comunità che trovava per il reduce una sistemazione come guardiano o sagrestano o altri lavori che essi potessero svolgere, malgrado la mutilazione, ma l’invalido rimaneva sempre un cittadino di secondo piano, tollerato, ma non gradito, e l’umiliazione portava spesso questi sfortunati giovani al suicidio.
Molti di quelli che erano guariti dalle ferite ne portavano poi per anni le conseguenze con infezioni pregresse e una vita breve e travagliata e anche queste morti andavano ad aggiungersi alle centinaia di caduti sul campo, italiani e austriaci sepolti dapprima in fosse comuni presso le cascine della zona e le cui ossa hanno poi trovato, in parte, pietoso e comune asilo nel monumento funebre della Bicocca, costruito nel 1879 per ospitare, senza distinzioni, i caduti dell’esercito sardo e di quello imperiale.

Sintesi a cura di Luigi Simonetta

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