Spigolature

Scampoli di antico dialetto
Introduzione

di Sandro Callerio

Il primo bisogno d'Italia è che si formino Italiani dotati d'alti e forti caratteri. E pure troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto: pur troppo s'è fatta l'Italia, ma non si fanno gl'Italiani.

[Massimo Taparelli, marchese d'Azeglio, I miei ricordi, 1867]

Camillo Boito. Un'architettura per l'Italia unita, a cura di Guido Zucconi e F. Castellani

La coscienza della necessità della costruzione di una base comune "italiana" si manifestacon evidenza, negli anni immediatamente successivi l'unificazione, in tutte le discipline. Ben noto, e studiato, il dibattito interno alla cultura architettonica dell'Italia unitaria, che ha in Camillo Boito l'interprete più conosciuto.

Uno stile, una maniera nazionale moderna si cercherebbero invano negli edificj costrutti da molti anni a questa parte. E l’architettura è tale arte, che, dovendo rappresentare i bisogni, gli usi, i costumi de’ vari popoli, ha più d’ogn’altra mestieri di serbare costantemente e scrupolosamente quella unità di modo, da cui soltanto possono venire la convenienza, l’espressione, la grandiosità.

[Camillo Boito, «L’architettura odierna e l’insegnamento di essa», Giornale dell’ingegnere-architetto ed agronomo, 8 (1860)]

Analogo interesse, applicato ad una conoscenza puntuale delle diverse espressioni linguistiche, troviamo, ad esempio, nella Raccolta di dialetti italiani con illustrazioni etnologiche in cui leggiamo: Il dialetto piemontese va soggetto a molte varietà, specialmente in tutti quei distretti che stanno a confine della Francia, della Savoia e della Svizzera. Che se dei diversi vernacoli dovei considerare come primario quello di Torino, volli però porre a confronto la traduzione del Dialogo torinese ... ; e con un'altra in Novarese, perchè serva come di passaggio dal dialetto piemontese al lombardo.
Giovi anzi il rammentare, che il Novarese, occupato nei primitivi tempi dai Levi o Lebui-Liguri, fece parte della Signoria di Milano fino al trattato di Vienna del 1735, quando cioè fu ceduto colla Lomellina al Re di Sardegna; e ciò indusse il primo Napoleone a formarne, un Dipartimento del suo arbitrario Regno Italico, dichiarandone capoluogo Novara.
Ed ancora: ... lasciando libero il campo ai filologi di sostenere discussioni sull'italiano idioma, ... . Per parte mia intesi di limitanni a raccogliere eflfettivi esempi, ... , collo scopo di portare materiali da impiegarsi nella costruzione di un solido monumento ... qual sia l'italico dialetto che meriti la preferenza sopra gli altri ... . Protesto altresì che nel maggiore bisogno di unione per consolidare il ricupero della indipendenza nazionale, mi guarderei bene dal sottopormi air accusa di voler ridestare le sopite gare municipali, funesto fomite di cittadine discordie. I fautori passionati, non dirò del Perticari e del Monti, ma dello stesso mordace Baretti sappiano, che di buon grado acconsento, che il sonante e gentile idioma si chiami italiano ... . Io pongo a confronto i diversi dialetti, perchè spontanea ne emerga la preferenza da darsi al migliore: col quale bensì vorrei, che la gioventù di tutta Italia si mostrasse sollecita di familiarizzarsi.
[Raccolta di dialetti italiani con illustrazioni etnologiche, di Attilio Zuccagni-Orlandini, Firenze 1864]
Il dualismo tra lingua italiana e dialetto, introdotto di fatto dall'obbligo scolastico, previsto dal Regio Decreto legislativo 13 novembre 1859, n. 3725 del Regno di Sardegna, meglio noto come "legge Casati", pur nella lentezza del processo di alfabetizzazione della popolazione italiana, lentezza in gran parte determinata dalla struttura del sistema economico e sociale della neonata Italia, caratterizzata da una forte prevalenza del settore primario - nel 1861 quasi il 70% della popolazione attiva era dedito all'agricoltura - ha prodotto evidentemente una costante "evoluzione" tanto della lingua italiana quanto dei dialetti stessi. I processi di urbanizzazione, e l'importanza dei movimenti migratori interni che hanno caratterizzato tutto il XX secolo, hanno poi contribuito a rendere sempre meno stretto il legame tra le popolazioni ed i dialetti. Di tale complessità è esempio il "novarese", dialetto appartenente al ramo occidentale della lingua lombarda, parlato a Novara ed in provincia e caratterizzato da una certa influenza piemontese. Nell'area dei dialetti gallo-italici, le terre situate tra il Ticino e la Sesia hanno una funzione di filtro tra le parlate piemontesi e quelle lombarde. I dialetti di queste terre sono generalmente indicati come novaresi e per lo più assimilati alla famiglia linguistica lombarda. L'attuale dialetto novarese ha progressivamente visto modificarsi quelle peculiarità che permettevano una facile individuazione nei confronti dei dialetti dei paesi vicini.

Scampoli di antico dialetto

di Luigi Simonetta

Essendo il dialetto lingua prevalentemente parlata, la gran parte degli scritti in dialetto novarese è datata all’Ottocento. La generalità dei documenti conservati è infatti redatta in latino oppure in italiano; abbiamo tuttavia, anche nei secoli precedenti, alcuni scritti, di persone alfabetizzate ma di modesto livello sociale che, abituate ad usare come lingua il dialetto, tendevano ad adattare all’italiano i termini popolari da esse conosciuti e utilizzavano quindi nella scrittura un linguaggio ibrido in cui erano inseriti vocaboli dialettali italianizzati.
Questo ovviamente non ci consente di sapere come veramente parlassero i nostri antenati, ma ci fornisce una evidente testimonianza di come molti termini dialettali fossero, già cinquecento anni or sono, gli stessi del dialetto dei nostri nonni.
A questo fine sono assai interessanti gli elenchi delle doti e degli inventari di eredità, per lo più compilati da “estimatori”, generalmente sarti e bottegai, che sapevano scrivere ma essendo di estrazione popolare erano legati all’uso del dialetto locale.
Un documento interessante è, ad esempio, l’elenco della dote della nobile Ludovica Avogadro di Casalgiate, moglie di Fabrizio Langhi, inserito fra gli atti del notaio Aurelio Tornielli nell’anno 1593.

La cadrega di san Gaudenzio

Fra gli oggetti inventariati troviamo ad esempio: una cadregha, termine derivato dal latino cathedra, che indicava in origine il seggio di legno utilizzato dagli alti dignitari sia laici che ecclesiastici, dai magistrati e dai professori ed era simbolo della loro autorità; ilvocabolo è ancor oggi utilizzato per indicare la scrivania degli insegnanti e, nel significato originario di sedia per indicare il seggio vescovile e papale. L'origine latina è evidente nel termine Cattedrale, che sta ad indicare la chiesa madre della Diocesi, che ospita appunto il seggio [cathedra] vescovile. A questo proposito val la pena di ricordare come la Cathedra della diocesi novarese sia conservata nella Basilica di San Gaudenzio, dove, per secolare tradizione, i nuovi vescovi devono fare ingresso per prendere possesso della cattedra e, con essa, della diocesi.
A rigor di termini, quindi, solo a San Gaudenzio, e non al Duomo di Santa Maria, spetta il titolo di Cattedrale.
Troviamo poi un barnazzo, forma italianizzata del termine dialettale barnasc che descigna lo strumento a forma di paletta per rimuovere la cenere; duoi salini ovvero dü salin, cioè due spargisale; ed ancora una sidela di ramo, ’na sidela da ram, dal latino sitella variante di situla ovvero secchio, in questo caso di rame, materiale di cui erano fatte anche le ramine - i ramini - ovvero le padelle di rame elencate nello stesso documento.
Nella dote non mancava una gratarola, ovvero una grattugia e alcuni forcini (fursini o furslini); nel dialetto di oggi furslina (piccola forca) indica piuttosto la forcina da acconciatura, ma nel dialetto parlato dai nostri nonni indicava la forchetta. Annoterò che le forchette erano, nel cinquecento, ancora un oggetto di lusso, uno sfizio da elegantoni, e la loro presenza nelle dotazioni nuziali era ristretta e pochi casi.
Più diffusi erano i cugiari, ovvero cucchiai, presenti anch’essi nella dote della figlia del conte di Casalgiate.
La dotazione da cucina della Avogadro era completata da una lecarda, una sorta di padella lunga e stretta che, posta sotto gli spiedi, era utilizzata per raccogliere il grasso colante ed il condimento. Il termine è ormai desueto, perchè l’uso dello spiedo nelle case è da tempo sparito, ma designa tuttora il vassoio metallico presente in ogni forno; Un amico di origine lomellina utilizza il termine licardon per indicare una persona golosa ed anche, in senso traslato, libidinosa.
Una cardenza - cardensa - ovvero credenza di noce era destinata ad accogliere dette suppellettili.
Dalla fornitissima dotazione di biancheria e vesti della contessina ricavo altri due termini dialettali: i sugamani - sugaman - ovvero gli asciugamani e i mantini - mantin -; i primi non erano probabilmente quelli per la toeletta mattutina ma piccole pezze di tessuto, generalmente lino, per asciugare le dita che, solo negli ambienti raffinati, venivano lavate in bacili presentati agli ospiti dopo che questi si erano serviti, con le mani, di una portata di carne.
Il termine mantin, (forse contrazione di mantlin diminutivo del termine spagnolo mantel, che corrisponde a tovaglia e da intendersi quindi nel senso di tovaglietta) indica nel dialetto attuale un tovagliolo o un fazzoletto da naso; indicava invece, nell’abbigliamento antico, i fazzoletti da testa o da collo, molto ampi perchè servivano o come velo copricapo o da drappeggiare sulle spalle; erano spesso assai costosi perchè tessuti con stoffe pregiate, ricamati e ornati di frange.
In un’altra dote del secolo seguente (rogito del notaio Barbosio di Borgovercelli del 21 gennaio 1671), quella della nobile Paola de Bulgaro, trovo altri due termini dialettali: camisa (camicia) e scossale (scusal). La camisa antica era molto diversa da quella attuale, lunga fino alle ginocchia per l’uomo e fino alle caviglie per le donne, più simile alla tunica usata ancora oggi nei paesi arabi, quelle più ordinarie erano di tela di rista ovvero filo di canapa, quello usato ancora dagli idraulici. Lo scossale (stesso significato di grembiale, ovvero indumento che copre il grembo, in dialetto scossa termine probabilmente termine di origine tedesca) era un elemento fisso dell’abito popolano novarese, veniva indossato sopra la gonna ed era di due tipi, quello da lavoro, di tela robusta e semplice, ampio e lungo e quello elegante, di ridotte dimensioni, di stoffa pregiata e fine, lino o seta, ornato di ricami e contornato di pizzi.

Ramine, cavagne e una caponera

Con un salto di altri sessant’anni passiamo al 1735 e ad un inventario di beni per l’eredità di un modesto proprietario di Borgovercelli: Francesco Cirio.
Eredità povera in quanto a valore, rispetto alle ricche doti delle nobildonne prima esaminate, ma ricchissima di termini dialettali: Sagurra (sgura) ovvero scure, cazzulo (casù), il mestolo, resiga (resga) la sega, mantile e mantiletti (e qui il termine mantin sta proprio ad indicare la tovaglia ed i tovaglioli), sedazzo (sidas) ovvero setaccio, cavagna ovvero cesto, un pidriotto di tolla (pidriot da tola) l’imbuto di latta, fodra (fœdra) la fodera, farina di meliga (farina d’melga) farina di mais. Ed ancora un zebro (sevar) cioè un tino di legno con entro salami (ovviamente salami d’la duja, sotto grasso) e un altro zebro da bugata (bucato), una caponera (capunera) la gabbia per i capponi, un erpigo (erpic) termine molto simile all’italiano erpice, strumento per l’aratura ed un’arca di pibbia (pubbia) ovvero un’arca (mobiletto rettangolare utilizzato generalmente per conservare pane e farina) fatto di legno di pioppo.
Concludo con la simpatica annotazione di tre oggetti per i bambini di casa: uno scufiotto e uno scuffino con due pupù (i pupù erano probabilmente due fiocchi di maglia) e un cadreghino d’albera per li figly.