Spigolature

L'antica proprietà dei Pallavicini di Nibbiola

di Maria Cristina Rossari

È ormai prossimo l’abbattimento in Nibbiola dell’antico complesso rurale appartenuto ai Pallavicini, la nobile famiglia che ha vantato un lungo rapporto con il paese.

Vista del complesso architettonico

Il complesso rurale si trova nel centro storico del paese e comprende l’antica dimora signorile. La proprietà di questa famiglia in Nibbiola risale certamente al XIV secolo, quando le “Consignationes” del vescovo Amidano fanno menzione di terre e di un castellatium Pelavicinorum, mentre la conferma dell’abituale residenza della famiglia in paese è data dagli Stati delle anime parrocchiali a partire dal 1630.
I Pallavicini erano proprietari di un vasto caseggiato nel centro del paese, sorto nei pressi dell’antica area di insediamento chiamata tuttora “castellazzo”, a ricordo della struttura fortificata che la famiglia possedeva da antica data e che a metà del 1300, risultava in stato di degrado, ridotta ad un castellatium, successivamente abbandonato dalla famiglia.
I signori, seguendo lo sviluppo urbanistico orientato verso l’attuale centro del paese, (laddove sorgeranno anche il castello dei Tornielli e la nuova chiesa parrocchiale), si stabilirono in una nuova dimora, al centro dei caseggiati rurali in cui risiedevano i dipendenti.
Nel 1688 Francesco Antonio Pallavicino, cittadino e decurione della città di Novara, fa erigere nella chiesa parrocchiale di Santa Caterina una cappella devozionale dedicata a Sant’Antonio da Padova di giuspatronato della famiglia. Diversi membri di questa sono sepolti proprio davanti all’altare della cappella.
Con la morte di Gerolamo, figlio di Francesco Antonio, nel 1703 e della moglie Anna Agostina Giussana nel 1723, i Pallavicini di Nibbiola si estinguono.
Alla morte di Anna Agostina l’eredità passerà ad un suo parente, Giovanni Francesco, che da bambino, nei primi anni di vedovanza della nobildonna, abitò con la famiglia, per brevi periodi, nella casa di Nibbiola.
Giovanni Francesco Giussani Pallavicini, nato a Candia Lomellina, era canonico della Cattedrale di Vercelli (dove aveva la casa di abitazione) e abate dell’abbazia di San Pietro d’Erbamara. A Nibbiola soggiornava il tempo necessario per amministrare i beni ereditati.
Fu in una di queste occasioni che, nella tarda serata del 13 novembre 1773, le sue condizioni di salute si aggravarono, tanto da far venire urgentemente da Novara il notaio Pietro Francesco Carotti, per la stesura delle le sue disposizioni testamentarie.
Nella notte fra il 14 e il 15 novembre il Giussani morì lasciando suo erede universale il nipote Conte Giovanni Caccia da Romentino allora comandante per la Real Maestà nel Borgo di Trecate ove risiedeva. A lui andranno tutti i Beni stabili, mobili semoventi ragioni ed altro esistente nel luogo di Nibbiola ed al di qua di Sesia ad esclusione de mobili, lingeria, argenteria e denaro nella presente casa di Nibbiola esistenti, beni che saranno trasportati a Vercelli. Deputato esecutore del testamento per Nibbiola è il parroco Giovanni Maria Bozzola, per quelli di Vercelli il Canonico Teologo Poletti e il procuratore Giuseppe Albania.

Vista dall'attuale via Marconi

La possessione di Nibbiola era a quei tempi un grande complesso di edifici rurali distinto in due grandi unità abitative, la casa da nobile e la casa massaricia, entrambe dotate di edifici rurali entro cui erano ricavate le case dei pigionanti.Attraverso la grande porta d’ingresso nell’attuale via Marconi n. 10, allora Contrada della Valle, si accede ad un primo cortile di pertinenza della casa massarezza, da lì si passa nella corte della casa padronale. La casa da nobile appare oggi come un edificio sobrio, senza particolari architettonici che rimandino alla presenza nobiliare, probabile esito anche di successivi interventi.
Al piano terra vi è la cucina con una saletta attigua, una sala grande e altra sala successive tutte in linea; al piano superiore si trovano le stanze: in corrispondenza della cucina vi sono due camere, sopra la saletta vi è un mezzano con al di sopra un’altra stanza e sopra ancora un magazzino; altre camere sono in corrispondenza della sala grande e della saletta attigua, sovrastate entrambe dal magazzino. La cantina sotterranea si trova sotto alla sala grande.
L’accesso ai piani superiori è consentito da una scala in vivo, collocata fra la prima saletta e la sala grande.
La casa è arredata con semplicità senza oggetti di particolare pregio: le stanze hanno tendaggi e tappeti, vi sono alcuni mobili in noce, diverse sedie inliscate, o foderate con tessuti a fiori e damaschi, seggioloni in cuoio, numerosi quadri, candelieri, guardaroba e canterano. L’elenco è lungo e dettagliato.
Ci soffermeremo dapprima sulla camera padronale, dove la sera del 13 novembre 1773 alla luce delli opportuni luminari, il notaio aveva trovato il Giussani a letto sofferente e con lui i testimoni per i beni di Nibbiola, Bartolomeo Ravarino, Pietro Giarda, Pietro Vescia, Lorenzo Masnaghetti, e quelli per i beni di Vercelli Carlo Morozzo e Francesco Quaglia.
Nella stanza vi era il letto con tre materassi e cuscini di lana, una trapunta coperta di tessuto indiana a fiori, alle pareti sei carte geografiche, due quadri rappresentanti figure buffe con la cornice verniciata, un quadro con ritratto di casa, sette incisioni con cornice di color celeste, due tende [?](due ridò con suo pante di tela di lino), quindi sei sedie di noce ricoperte alcune di cuoio, altre in baggiana a fiori, un tavolino di noce, una cassa di noce con chiave e serratura vecchia, un baule coperto di pelle, chiusa a chiave dove era custodito il denaro (la somma trovata all’apertura del testamento era di lire 1417 e soldi 15), un piccolo specchio con la cornice nera, quattro banche, un seggiolone coperto di tela gialla, una sedia da camera. Nella camera sotto questa o mezzanello è riposto il corredo e un arredamento più ricco: due casse di noce, due tavolini (uno di noce) con i loro tappeti, letto e materassi, un pagliericcio e un canapè, sedie, diversi quadri, gli attrezzi del camino (due Brandinali di ferro con pomi d’ottone, con mola e Pala), la biancheria (una coperta di filo e roccadino a fiori pezzata, sedici lenzuoli da tre tele caduno di crepe di lino, otto mantili operati di lino usati,trentuno serviette parte di lino, e parte di rista una mantilazza, un picciol fornimento da letto di tela bianca, altra coperta di filo e Rocadino usata, quindici asciugamani di tela crape)
Non mancano poi due guardaroba con ante, i cantarà, uno scrittoio con diversi tiretti guarnito d’avorio, tornaletto, tende e tappeti, diversi quadri di soggetto sacro e profano, un benedettino di cristallo.
Nella cucina vi sono gli strumenti per la cottura sul fuoco, quindi brandinali, catene, trepiedi, girarrosto, graticola, poi mortaro, pesa, bruciacaffè, caffettiere e scodelle di legno col molinetto da caffè, gratarola, mezzaluna, diverse pentole e padelle di rame, qualche secchio, attrezzi per il fuoco, due olle di terra, sei dozzine di tondi di maiolica a festone o scantonati, tre tortiere, un fornelletto di ferro col suo coperchio per la cioccolata, otto piatti di stagno, una zuppiera, lucerne, candelieri, scaldaletto.
Il testamento dispone che i beni mobili, la biancheria, le suppellettili, l’argenteria ed il denaro presenti nella casa di Nibbiola e portati dalla casa di Vercelli, lì dovessero ritornare e, insieme ai cavalli, alla carrozza ed allo sterzo ed altri attrezzi, venduti per costituire una rendita di 1400 lire di Piemonte, con cui pagare la celebrazione annuale della messa di suffragio ai canonici della Cattedrale di Vercelli. Tutto ciò che è presente nella casa e non proviene da Vercelli sarebbe passato al Caccia; al fattore dei beni di Nibbiola, Bartolomeo Ravarino, viene condonato il debito che aveva verso il padrone.
Davanti alla casa signorile, sul lato sud si apre la corte e ad ovest il giardino.
vA sud della suddetta corte, oltre il muro di cinta si trova un’altra corte e la casa del pigionante, con magazzino a pian terreno e al piano superiore, stalla per i bovini attigua all’abitazione, e in successione la scuderia con la sua cassina, cosicché tutti gli spazi sono in linea colla facciata a sera. Nella stessa corte vi sono infine altri tre cassi da terra e un sito di torchio da vino.
La casa padronale, quella rustica, la corte e il giardino in un sol corpo confinano a est con la casa e la corte massarezza facenti parte della proprietà, a sud con la proprietà dei nobili Brambilla, Avogadro, e beni dei Pallavicino; a ovest con Francesco Morlando e a nord con il marchese Brambilla.
La casa masarezza ha la porta d’ingresso nella contrada della Valle e comprende: sul lato sinistro, entrando dal portone, un casso da terra, due stabi in successione, un orto, dal lato destro del portone sono dislocati due pollaj con due piccioli cassi al di sopra, due cucine colle rispettive camere superiori, stallone successivo con cassina di sopra, tre cucine da pigionante successive colle rispettive camere superiori, altri quattro cassi da terra rimpetto a detto sito vuoto, e stabj, corte d’avanti cinta di morello ove non vi è detto fabbricato. Tutto il complesso confina a est con la contrada suddetta, a sud con gli eredi di Giuseppe Rossino e altre case da pigionanti della proprietà Pallavicino, a ovest con la casa padronale e a nord con la proprietà del marchese Bagliotti.
Infine un’altra casa rustica consistente in tre case da pigionante al pian terreno e le rispettive stanze superiori, lo stallino con un piccolo casso sopra, la corte davanti.
Al complessi edilizio erano annesse circa 721 pertiche di terreni in prevalenza arativi, ma anche prativi e boschivi.
I Caccia tennero l’eredità sino alla fine dell’Ottocento, poi questa passò al commendatore Durio di Civiasco, quindi negli anni venti del Novecento al geometra Giovanni Ubezio di Cerano. A partire dagli anni settanta del secolo scorso la diminuzione della popolazione e l’abbandono delle attività agricole comportarono lo svuotamento di molti edifici rurali, così consegnati non solo ad un’inevitabile degrado materiale ma, fatto ben più grave, all’indifferenza degli abitanti, che ancor oggi, assistono alla graduale perdita delle più autentiche e profonde testimonianze del proprio passato e con esse della propria identità culturale.