Conversazioni d'archivio

Trionfi barocchi a Novara in un’opera ritrovata di Girolamo Antonio Prina:
La povertà Vittoriosa, 1713

Franco Dessilani - 28 febbraio 2012

Anna Belfiore, presidente della Fondazione Banca di Intra, Marcella Vallascas, direttrice dell'Archivio di Stato di Novara, Sergio Monferini, presidente di Scrinium e Renzo Dessilani, relatore

Martedì 28 febbraio si è inaugurato il ciclo primaverile 2012 delle Conversazioni d’Archivio, che saranno tutte collegate al progetto di studio del periodo barocco novarese “Forme che volano”, progetto che avrà il suo vertice in un convegno sull’argomento nel mese di maggio.
Il Dott. Franco Dessilani, di Fara, assai noto per numerose pubblicazioni di storia locale, ha intrattenuto un folto pubblico presentando un testo barocco, recentemente ritrovato, opera di Gerolamo Antonio Prina: “La Povertà Vittoriosa”.
Gerolamo Antonio Prina, nato a Novara il 14 novembre 1660 e battezzato il giorno successivo nel battistero del Duomo, era figlio di Don Cesare Gaudenzio e di Donna Maddalena Rustiani; il padre apparteneva al ramo cadetto di una delle famiglie decurionali che già da secoli partecipavano al governo della Città (un Guido Prina era decurione in Novara nel 1223) e il suo ramo famigliare veniva identificato con il cognome Prina-Piccinino a partire dal 1641, quando il capitano Francesco Piccinino Spadino, padrino di battesimo di Cesare Gaudenzio e suo prozio (in quanto fratello uterino della nonna Isabella Tornielli-Piccinina) aveva designato eredi di parte delle sue cospicue sostanze i nipoti Prina con l’obbligo di aggiungere il suo cognome al loro.
Parliamo quindi di una famiglia di antiche e nobili ascendenze cittadine, ma priva di grandi ricchezze, per cui i rami minori avevano da tempo rinunciato allo status nobiliare dedicandosi ad attività borghesi ancorchè decorose; mentre la famiglia materna, casato di farmacisti e ristoratori di origine genovese, era di estrazione decisamente borghese ma di condizioni economiche probabilmente più facoltose di quelle dei Prina.
Gerolamo Antonio entrò in seminario e ricevette il diaconato a Novara nel 1684; fu ordinato sacerdote negli anni successivi, non sappiamo esattamente quando né dove, molto probabilmente a Pavia, dove si addottorò, e sicuramente prima del 1691, anno in cui ricevette la carica di curato di San Matteo di patronato dei Tornielli.

La posizione dell'antica chiesa di san Matteo sulla mappa "Teresiana"

La piccola chiesa di San Matteo, sconsacrata dopo le soppressioni napoleoniche, ed in seguito demolita, sorgeva presso l’incrocio delle attuali vie Giovanetti e Gautieri; ad essa faceva capo una minuscola parrocchia abitata da una cinquantina di persone, in buona parte ecclesiastici e anziani (Dessilani ha recuperato, in archivio diocesano gli Status animarum della parrocchia); il curato viveva nella casa parrocchiale assieme alla matrigna Apollonia Rustiani, vedova Valli, che era anche sua zia in quanto sorella della madre.
Va da sé che l’impegno parrocchiale occupava solo piccola parte del tempo del Prina, che poteva così comodamente dedicarsi al suo incarico di insegnante di retorica in seminario e alle composizioni letterarie, la sua vera passione.
Gerolamo Antonio morì il 4 aprile 1723 a 63 anni e fu sepolto in Duomo nel sepolcro dei curati.
Sappiamo che il Prina riuscì a dare alle stampe, tra il 1701 e il 1712, diverse opere (Mausoleo simbolico per le esequie di re Carlo II di Spagna, Mosè ricercato nella figura di san Gaudenzio Soleri, Pacis omnia, il Trionfo di San Gaudenzio e infine La Povertà vittoriosa) e altre ne lasciò manoscritte, tutte affidate allo storiografo Lazzaro Agostino Cotta che ne inserì parte nelle sue Miscellanee e nel Museo Novarese, mentre gli originali furono purtroppo dispersi nei bombardamenti dell’ultima guerra.
Fino ad ora l’unica sua opera conosciuta e presente in numerosi esemplari nelle biblioteche era il Trionfo di san Gaudenzio, testimonianza delle solenni celebrazioni per la traslazione dei resti del Patrono novarese nello scurolo, che ebbe grande fortuna più per le belle incisioni che lo arricchivano, opera di un altro Prina: il barnabita Pier Francesco, disegnatore e architetto di talento, che non per il testo.
Questa più nota opera del Prina sintetizzava al meglio l’idea del “Trionfo” barocco, così esemplare nella mentalità dell’epoca, nelle celebrazioni pubbliche, con i suoi tre elementi di fondo:
- la dimensione trionfale dell’avvenimento, visto come pubblica celebrazione corale intorno una persona eccezionale (santo, regnante o eroe che fosse);
- il concetto della Gloria, come culmine celebrativo, apoteosi e riconoscimento massimo del merito acquisito;
- la dimensione teatrale dell’avvenimento organizzato e goduto come uno spettacolo.
In quest’ottica l’opera del Prina tende a fissare sulla carta le celebrazioni effimere che vengono così rimmemorate a chi le ha viste e trasmesse anche a chi non era presente, allo scopo di celebrarne gli organizzatori, gli “spiritosissimi” Fabbriceri della Basilica (1) quali rappresentanti della Nobiltà cittadina che, dalla grandiosità della civica chiesa patronale, traeva vanto ed onore.

Dessilani è poi passato a parlare della “Poverà Vittoriosa” l’altra opera del Prina che si credeva perduta e di cui egli ha rintracciato una copia superstite (2). Opera simile negli intenti alla precedente, anche se su un piano più modesto, essendo la committenza fatta da un ordine religioso mendicante.

San Felice da Cantalice

L’ordine dei Frati Minori Cappuccini, fondato nel 1520, aveva inizialmente, sulla strada per la Bicocca, chiesa e convento, poi trasferiti entro le mura nell’area dell’odierno Ospedale Maggiore, più o meno sul sito dove sorge attualmente la "Casa di cura"; l’ordine vide, nel 1712, per la prima volta assurgere all’onore degli altari un suo esponente: Padre Felice da Cantalice (3) e i religiosi, desiderosi di glorificare il proprio ordine, indissero celebrazioni straordinarie nella settimana successiva il Natale, dal 28 dicembre 1712 al 3 gennaio 1713, ed affidarono al Prina l’incarico di immortalare, in prosa e in poesia, il fausto evento.
Leggendo il testo nessuno potrà dire che il logorroico Gerolamo Antonio non si sia guadagnato lo stipendio, con una minuziosissima cronaca degli eventi di cui nulla ci viene risparmiato ed ogni momento viene anzi vieppiù enfatizzato e magnificato con aggettivi roboanti e con tutto l’armamentario di esempi, similitudini, metafore ed altri ghiribizzi e contorcimenti verbali barocchi intesi a suscitare la “meraviglia” dei lettori:
“è del poeta il fin la Meraviglia (parlo de l’eccellente e non del goffo)chi non sa far stupir vada a la striglia” come diceva il Marino.

Il buon curato ci informa in apertura del suo “piccolo racconto di penna volante” che il Tempo invidioso aveva tentato di rovinare le solenni celebrazioni con una abbondantissima nevicata, il giorno 27 dicembre, ma le sue mene maligne erano state sventate dal cielo che, il giorno successivo, aveva versato pioggia sulla neve, talchè la neve si era sciolta in lacrime permettendo l’afflusso dei fedeli.
La straripante curato di San Matteo ci informa che dalla sua “penna volante” uscirono, in quell’occasione anche rime a fiotti, tese a magnificare le virtù del santo, rime che furono riportate su cartelloni esposti lungo le vie, sotto immagini del santo esposte sopra archi trionfali eretti nelle strade ed all’interno della chiesa cappuccina negli intervalli fra le partizioni create nell’edificio sacro con pregiate stoffe.
Culmine dell’apparato scenico era l’abside della chiesa, abbellito con stoffe e dipinti e decorato, a mo’ di palco sanremese, con una profusione di fiori coloratissimi disposti a piramidi, non opera della Natura, ma usciti dalle abili mani di un fraticello che li aveva modellati con la cera (chissà se, in origine erano così anche i fiori portati in omaggio a San Gaudenzio il 22 gennaio?) e dietro a questi trionfi floreali ancora uno sfondo di piante verdi, naturali queste, ma abbellite da altri fiori di cera di ogni forma e colore, a far da cornice al grandioso gonfalone che raffigurava padre Felice con il Bambino Gesù fra le braccia, davanti alla Vergine contornata da Angeli; opera del pittore oleggese Giuseppe Tosi detto il Cuzzio che, come ha detto la prof. Fiori in un suo intervento, replicò poi il medesimo soggetto in un quadro ancora esistente.

Le insegne del vescovo Visconti, affrescate sotto il portico del palazzo vescovile

Le celebrazioni furono imponenti con la partecipazione del vescovo Visconti (4) (a cui l’opera del Prina è dedicata), del clero cittadino e di scelti predicatori che magnificarono la figura del nuovo Santo. Furono chiamati da Milano suonatori eccellentissimi d’ogni strumento che, unitamente a tutti i musici della Città, deliziarono le orecchie dei fedeli durante le celebrazioni ed eseguirono un Oratorio, musicato da Gianbattista Polvara, maestro di cappella del Duomo su un testo, manco a dirlo, del facondissimo Prina.
Le celebrazioni continuarono per sette giorni saziando tutte le voglie celebrative dei novaresi, e riuscendo a calmare anche le esuberanze letterarie del Prina che, arrivato a fine settimana registra ormai con più sobrietà, come avvenimenti ordinari, le ultime cerimonie.
Il testo del Prina non è certamente un capolavoro letterario e, probabilmente, anche all’epoca ben pochi lo lessero integralmente, tuttavia il suo ritrovamento consente oggi all’appassionato di storia di avere un reportage di prima mano su questo avvenimento mondano che aveva avuto grande risonanza, trecento anni or sono, in una Novara da poco uscita da un lunghissimo periodo di guerre, terminate nel 1706 con la conquista della città da parte del principe Eugenio di Savoia, che aveva consegnato la città agli Asburgo, che da allora governavano il novarese di fatto e che, proprio in quell’anno 1713, ne acquisirono, con il trattato di Utrecht, la piena sovranità.

Relazione di Luigi Simonetta


(1) 1706 - 1713: Gaudenzio Avogadro, Lanfranco Boniperti, Gerolamo Caccia, Andrea Carli, Giuseppe Antonio Della Porta, Giuseppe Antonio Nazari; vedi anche Fabbrica Lapidea della Basilica di San Gaudenzio - I Fabbricieri
(2) Il Vallauri, ne La poesia in Piemonte, diceva presente il testo nella Biblioteca Ambrosiana, inserita nella miscellanea del Cotta con altre opere dello stesso autore; il Vallauri segnalava anche tre volumi di prosa e poesia del Prina, dal titolo Il fiore del Parnaso, conservati nella biblioteca dell’Università di Pavia.
(3) Felice Porro, nato a Cantalice nel 1515, entrò trentenne nel convento cappuccino di Fiuggi; dopo due anni si trasferì a Roma dove fu frate questuante per tutta la vita nel convento di San Nicolò de Porzi. Fu amico di San Filippo Neri, a cui lo accomunava il grande amore per i bambini, non meno che la volontà di servire i poveri.Alla sua morte, il 18 maggio 1587, il papa Sisto V, per la generale venerazione popolare di cui era oggetto a causa della sua bontà e dei molti miracoli operati, ne avviò il processo di canonizzazione, che ebbe però compimento soltanto il 22 maggio 1712.
(4) Giovanni Maria Visconti di Milano, chierico regolare di San Paolo, nato nel 1645, vescovo di Novara dal 1688 al 1713; il suo ingresso in Novara, nel 1690 fu segnato da una indecorosa lite, in piazza del Duomo, fra i canonici gaudenziani e quelli del Duomo; la vicenda, con la descrizione delle cerimonie di ingresso e di insediamento del presule (altro esempio di Festa barocca) fatta dal cancelliere civico Gaudenzio Pelizzari è riportata in: Luigi SIMONETTA, «I notai Pellizzari, Cancellieri della Città di Novara», BSPNo C (2009) 501-528

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I Prina-Piccinino

[nota di Luigi Simonetta]

Il cognome Prina (1) (Prini, de Prinis), come i consimili Perini e Perotti, trova la sua origine nel diminutivo del nome Pietro (Petrino-Perino-Prino) ed è cognome di antica presenza nell’area novarese, dove un Guido de Prinis è elencato fra i decurioni cittadini nel 1223.
Dal casato sortirono da allora numerosi funzionari pubblici laici ed ecclesiastici, segnando una costante e importante presenza, nella storia cittadina, della famiglia, imparentata con numerose casate antiche e, in particolare, con quella dei Brusati.
I Prina avevano diritto, nel consiglio decurionale, a una “voce”, detenuta, per via ereditaria, dal ramo primogenito, l’unico che nel XVII secolo poteva ancora mantenersi a livello nobiliare senza abbassarsi a esercitare professioni borghesi.
Dal ceppo principale si staccò nel XVI secolo un ramo secondario che gestiva in città una spezieria, con un Gianbattista che troviamo assieme ai fratelli Gianantonio e Gerolamo soci in affari di un parente, Gabriele Prina mercante in Roma; questo Gianbattista era figlio di un Giuseppe, identificabile con il Giuseppe console di giustizia dal 1543 al 1583 e padre anche di Nicolò continuatore del ramo principale (da cui poi discenderà quel conte Giuseppe che fece “la fine del povero Prina”).
Gianbattista sposò Isabella Tornielli vedova Occhetta che viene detta, nel contratto nuziale del 1585, Isabella Spadina in quanto la madre, Margherita Porzio Spagnolino di Romentino (sorella del calegaro Ercole e del reverendo Battista parroco di Sant’Agabio) aveva sposato, in seconde nozze, Giuseppe Piccinino Spadino.
Dalle nozze di Isabella e Gianbattista nacquero almeno due figli maschi, Francesco, poi entrato nell’esercito spagnolo dove raggiunse il grado di alfiere e Gerolamo Antonio, sposato a Barbara Doglia.
Giuseppe, primogenito di Gerolamo Antonio entrò in seminario (sarà poi il primo titolare della cappellania Spadina) e l’attività di speziale fu continuata da Cesare Gaudenzio, che ebbe come padrino di battesimo il capitano Francesco Piccinino Spadino, fratello uterino della nonna Isabella.
Il capitano Francesco era una personalità importante della Novara del Cinquecento e di lui ci sono pervenuti scritti di tecnica militare; era proveniente da un famiglia di artigiani (ofellari e sellari) ma aveva scelto la carriera militare e si era arruolato nell’esercito francese (sappiamo che, forse per questo, fu colpito da bando di espulsione dal Ducato di Milano) ed aveva raggiunto il grado di sergente maggiore (era già un grado molto elevato di comando, non paragonabile a quello di sergente maggiore negli eserciti odierni).
Lo Spadino, che nell’anno 1629 durante la guerra di successione del Monferrato, aveva una posizione di rilevo nella piazzaforte di Casale, nel corso dell’assedio, ricordato dal Manzoni nei Promessi Sposi, accettò di consegnare la porta di Casale sotto il suo controllo agli spagnoli in cambio della revoca del bando e della nomina a capitano di un reggimento di cavalleria nell’esercito spagnolo e se ne fuggì poi da Casale in tanta fretta da dover lasciare nella città la moglie, il figlio e un nipote.

Assieme all’odio imperituro dei francesi, il suo tradimento gli fruttò una brillante posizione che gli permise di disporre alla sua morte, di un cospicuo patrimonio che, essendo il figlio morto in giovane età, divise fra i cugini Piccinino, i cugini Porzio (nipoti della madre) e i nipoti Prina discendenti dalla sorella, a cui impose di portare il cognome Prina-Piccinino (2).
La parte più consistente dell’eredità andò poi al capitolo del Duomo di Novara, con obblighi di messe di suffragio, disponendo che ad ogni discendente femmina dei suoi eredi Piccinino, Porzio e Prina fosse assegnata una dote al momento del matrimonio o della monacazione; nel Battistero fu conservato, fino ai restauri del secolo scorso, un suo ritratto; sarebbe interessante accertare se esso è ancora in qualche deposito diocesano.
Cesare Gaudenzio Prina sposò Clara Maddalena Rostiani figlia dello speziale Bernardo, e nipote di quell’Annibale (Balin) Rostiani, oste della Croce Bianca, da cui prese il nome il “Canton Balin”. Rimasto vedovo Cesare Gaudenzio sposò poi la cognata Apollonia Rostiani, vedova di Battista Valli, che allevò i tre figli della sorella: Clemente, Domenico e Gerolamo Antonio.

La chiesa di San Giuseppe in Fara Novarese

Clemente è documentato come fornitore di ostie e vino da messa, Gerolamo Antonio prese gli ordini religiosi, divenne parroco di san Matteo ed è ricordato per il suo “Trionfo di san Gaudenzio” edito in occasione delle celebrazioni per l’inaugurazione dello scurolo, e Domenico proseguì l’attività di speziale, e fece costruire in Fara, nel 1728, la chiesetta di san Giuseppe; Domenico viene spesso erroneamente indicato come canonico, confondendolo probabilmente con il figlio, Giuseppe, canonico del duomo di Novara, che ereditò i diritti di patronato sulla chiesetta.
Il casato si estinse probabilmente con il canonico Giuseppe, perchè anche Clemente non risulta abbia avuto discendenza maschile dai due figli Francesco Antonio, penitenziere del Duomo e Carlo Cesare, sposato a una Boniperti.
Ritengo, in base ad alcuni indizi, da approfondire, che alla famiglia Prina Piccinino appartenesse probabilmente anche il celebre architetto e disegnatore Pietro Francesco Prina e questo al di là della sua collaborazione con Gerolamo Antonio per i disegni del “Trionfo di San Gaudenzio”.


(1) – Vedi anche Il valoroso barone Pestacalda
(2) – Anche molti Porzio adottarono, pur senza averne l’obbligo, il cognome Porzio Piccinino, sia per trarre gloria riflessa dalla parentela con un illustre personaggio, sia per ricordare il beneficio della dote spettante alle discendenti.
Grazie agli alberi genealogici allegati a molte richieste di dote sono riuscito a ricostruire gran parte delle linee di discendenza dei parenti del Capitano Piccinino in moltissime famiglie borghesi novaresi (Console, Gramone, Porzio, Nibbiola, Notari, Varesi, Omar, Rosina, Colla, Reali, Hernandez, de Robles ecc.) e ho anche individuato almeno due discendenti viventi della famiglia.