Note e documenti

Il Caso TiO2(1)

di Giovanni Pieri

I - Il progetto TiO2 nasce all'Istituto Guido Donegani tra la fine degli anni cinquanta e l'inizio dei sessanta, come ricerca di inseguimento alla Du Pont da parte della Montecatini.
Nel 1940 Du Pont aveva avviato una produzione di biossido di titanio via cloro (2), un processo per convertire il tetracloruro di titanio gassoso in biossido di titanio pigmentario attraverso una combustione diretta del cloruro con ossigeno.
La tecnologia forniva un prodotto nella forma cristallina rutilo, che consente le migliori prestazioni del pigmento. Tra i vari tipi Du Pont l'R 900 era preso dai ricercatori del Donegani come obiettivo verso il quale puntare(3).

II - Cuore dell'impianto Du Pont era il reattore, detto anche bruciatore, per la reazione di combustione fatta avvenire all'interno.
La forma del reattore era sommariamente nota dalla letteratura brevettuale: un lungo cilindro verticale, di circa un piede di diametro, alimentato dall'alto con ossigeno preriscaldato ad alta temperatura.
Il tetracloruro era alimentato ad una certa altezza attraverso una fenditura circonferenziale. All'incontro dei due gas si accendeva la combustione, sostenuta dall'alta temperatura dell'ossigeno.
La combustione progrediva nella parte di reattore sotto la fenditura, dove il pigmento solido si formava come prodotto di combustione.
Si sapeva, ma non era chiaro da quali fonti, che Du Pont aveva dovuto tribolare assai per mettere a punto l'impianto e che, una volta trovato l'assetto giusto, non lo aveva mai più cambiato dal 1940.
Se ne deduceva che il bruciatore potesse marciare in una condizione sola e che la differenziazione del prodotto in vari tipi fosse poi compiuta nei post-trattamenti, su una base unica prodotta nel reattore.

III - Lo spirito con cui questa ricerca veniva condotta all'inizio era quella del "me too", basato sulla banale considerazione che ciò che è buono da produrre per gli americani è buono anche per Montecatini, con poca considerazione delle economie di scala, della dimensione del mercato accessibile, della forza dei competitori.
La mentalità corrente, pur senza ideologizzazioni, era ancora quella autarchica dell'anteguerra, secondo la quale era scontato che autoprodurre fosse più conveniente che comprare (4).
In questo spirito la ricerca era stata onestamente condotta da due laureati: il dottor Piccolo e l'ingegner Maiorano.
Secondo l'organizzazione dei tempi il chimico lavorava al progetto con il suo laboratorio e con il personale in forza a quello. In quell'ambito doveva creare tutte le competenze necessarie o altrimenti farne a meno.
L'approccio interdisciplinare era sconosciuto e la stessa convergenza di forze verso un obiettivo comune non era assolutamente praticata.
Nel Donegani di allora la ricerca era svolta da una molteplicità di laboratori, ciascuno equiparato ad un reparto produttivo, ciascuno impegnato su un suo progetto, con poca o nulla interferenza da parte degli altri.
L'unica eccezione veniva praticata per il caso in cui nella ricerca ci fosse necessità di progettazione di apparecchiature, con aspetti anche meccanici; in tal caso al chimico veniva affiancato un ingegnere, il quale, pur avendo dignità pari al collega, non aveva laboratorio né personale proprio ed era in posizione di consigliere piuttosto che di responsabile.

IV - Il duo Piccolo-Maiorano, sorto in base a tali principi organizzativi, non aveva lavorato male.
Non aveva tentato di copiare la tecnologia Du Pont, troppo esotica (si era mai visto un bruciatore radiale?), ma si era attenuto alla tecnologia Cabot, anch'essa nota attraverso i brevetti.
Cabot proponeva un ampio reattore rivestito di refrattario, una tipica camera di combustione, con un bruciatore assiale alla sommità.
Nel bruciatore di Maiorano e Piccolo venivano fatti bruciare con ossigeno sia il tetracloruro, sia ossido di carbonio, il cui calore di combustione sosteneva la reazione principale, in assenza del preriscaldamento dell'ossigeno.
I risultati in parte c'erano: venivano ottenuti prodotti di tipo pigmentario, ma la qualità del mitico R 900 continuava a sfuggire.
Un preciso giudizio di merito non è possibile a distanza di tempo, dato l'ambito organizzativo chiuso in cui i fatti si svolgevano, ma sembra di poter dire con una certa sicurezza che dopo un periodo di alcuni anni ci si trovasse in una situazione di stallo: risultati sicuramente incoraggianti, ma non ancora all'altezza di un pieno raggiungimento dell'obiettivo.
Soprattutto, esaurita la spinta iniziale, sembra che mancassero le idee su come procedere per ottenere un successo pieno.

V - Così più o meno è la situazione quando entra in scena un nuovo personaggio. L'uomo è un giovane dirigente, molto noto sia in Montecatini sia all'esterno.
Al Donegani ha diretto la Sezione Geochimica con dinamismo e successo. Il futuro lo avrebbe proiettato ad altissimi livelli sia in ambito nazionale che internazionale.
Umberto Colombo, ché di lui si tratta, viene nominato responsabile della Sezione Chimica Inorganica, un raggruppamento di laboratori che si occupano di svariati argomenti nella chimica a valle delle attività minerarie della Montecatini.
Della Sezione fanno parte il dottor Piccolo ed il "suo" progetto TiO2.

VI - Colombo vede le cose in grande. Non si sa se, dovendo egli stesso partire da zero, avrebbe scelto di iniziare una ricerca di inseguimento nel campo del biossido di titanio.
Dal momento che ne diventa responsabile, però mostra di crederci, non solo con le parole, ma anche con una quantità di fatti.
Una cosa è certa: il progetto così com'è per lui è assolutamente inadeguato. Se deve essere portato avanti c'è bisogno di ben altri mezzi.

VII - Colombo per prima cosa sovverte l'organizzazione del progetto, basata sul discutibile concetto di "un uomo, un progetto". È una organizzazione vecchia, sorpassata, "di tipo militare" la chiama lui.
È necessario istituire un gruppo di lavoro con competenze differenziate, che possa prendersi cura di tutti gli aspetti chimici, fisici e ingegneristici del progetto.
Colombo dà la carica ai suoi uomini.
Alcuni di questi, come il professor Sironi, hanno già lavorato con lui alla Sezione Geochimica ed hanno esperienza nella conduzione di progetti complessi e sono già in sintonia con il carattere dinamico di Colombo, che richiede rapidità ed efficacia.
Colombo attira nella sua orbita anche personaggi di altri laboratori, ottenendo un impegno da parte di uomini della Sezione Chimica Fisica, come il dottor Lanzavecchia e il dottor Gazzarrini, che portano il contributo dei laboratori meglio strumentati del Donegani.
Colombo fa venire il dottor Mancini, uno specialista di pigmenti, dalla Divisione Prodotti per l'Industria (DIPI) a occuparsi del laboratorio di caratterizzazione del pigmento.

VIII - Gli ingegneri vengono fatti entrare in massa nel progetto. La sparuta pattuglia degli ingegneri in forza al Donegani si mobilita per disegnare apparecchi e impianti. È in questa fase che lo scrivente passa al progetto, provenendo dalla Sezione di Ingegneria diretta da Giacomo Fauser.
La Divisione Ricerche (DIRI) aveva peraltro un nutrito gruppo di ingegneri di stanza a Milano, in cui si trovavano non solo esperienza di ingegneria di processo, ma anche competenze specialistiche, come progettazione di bruciatori, matematica applicata, modelli matematici e statistica industriale.
Si tratta di persone con consolidata esperienza come l'ingegner Mariani, il professor Cappelli e l'ingegner Bedetti ed anche di brillantissime promesse come Mario Dente e Amilcare Collina.
Questa struttura si mobilita ampiamente sul progetto, alcuni di loro vengono trasferiti temporaneamente a Novara per dar man forte agli ingegneri locali.
Non è chiaro se questo impegno sia stato richiesto o subìto, sta di fatto che allarga a Piergiorgio Gatti, capo del DIRI, la responsabilità del management del progetto. Ad un più alto livello si ripropone la diarchia che lo caratterizzava all'inizio.
C'è un'anima chimica, impersonata da Colombo ed un'anima ingegneristica, impersonata da Gatti. Ciascuno con la sua struttura e la sua filosofia. Ma tutto questo non frena il progetto, anzi gli dà maggiore impulso.

IX - Dopo aver sovvertito la stantia organizzazione interna, Colombo apre sull'estero.
Colombo ha una formazione americana, ha passato un anno al prestigioso MIT di Cambridge (Massachusetts), parla perfettamente l'inglese, viaggia, tratta con disinvoltura in un contesto internazionale, sia industriale, sia accademico, che conosce molto bene.
Prende allora come consulente il professor M. W. Thring, del Queen Mary College di Londra.
È questi un "Solone" della combustione, che per primo ha inquadrato teoricamente i fenomeni che si verificano nelle fiamme a causa del confinamento dato dalle pareti della camera di combustione. La teoria che porta il suo nome risale agli anni quaranta, successivamente ha acquistato fama sempre maggiore.
Le sue visite periodiche diventano l'occasione per rivedere da capo a fondo i risultati e le impostazioni del progetto. Nella Sala Consiglio del Donegani si radunano tutti i partecipanti del progetto, ciascuno per presentare a Thring ed agli altri il proprio lavoro.
Con la regia di Colombo e lo stimolo delle domande e ossevazioni di Thring si accendono discussioni critiche, a volte feroci.
Il vecchio sistema, per il quale ognuno teneva segreti i suoi risultati, li faceva vedere solo al suo capo in un rapporto quasi da confessionale, è ormai un ricordo.
Si impara ora raccontare tutto a tutti e a sentire in diretta i commenti su obiettivi e risultati, pronti a rintuzzare le critiche e, se necessario, ad ammettere i propri errori ed a cambiare rotta.

X - Colombo però guarda ancora più lontano ed entra nella Flame Research International Foundation (FRIF), un ente di ricerca consortile di base a Ijmuiden in Olanda, ospitato da Hoogovens, la grande fabbrica di acciaio con altiforni e laminatoi.
La FRIF è una associazione di aziende pubbliche e private di vari paesi europei, soprattutto francesi, tedesche e inglesi, ma anche belghe e olandesi.
Al momento in cui Colombo vi associa la Montecatini, la FRIF ha una storia prestigiosa e vanta alcuni successi strepitosi. Tra tutti brilla il primo modello matematico di una fornace mai realizzato al mondo.

Per capire di che cosa si tratta e valutarne in pieno l'importanza, è necessaria una breve digressione.
Una fornace è un apparecchio a forma di grande camera nella quale si fa avvenire la combustione ed è pertanto chiamata camera di combustione.
Il sistema di condotti attraverso i quali vengono immessi il combustibile e l'aria comburente è detto bruciatore.
È quello il punto della fornace dove si sviluppa la fiamma. La fiamma, costituita di gas incandescenti che si allontanano dal bruciatore, occupa buona parte della camera di combustione, il restante spazio della quale è occupato da gas caldi animati da movimenti complessi, dipendenti dalla forma sia della camera sia del bruciatore. Sono questi movimenti che, insieme alle temperature dei gas nei vari punti della fornace, ne determinano l'efficienza, sia che la fornace sia impiegata per generare vapore che per altri scopi, come, ad esempio, cuocere materiali ceramici.
L'ingegneria, per ogni tipo di apparecchio che impiega, vuole avere mezzi di calcolo idonei a prevederne l'efficienza.
Così si sarebbe desiderato fosse anche per le fornaci, ma a metà del secolo scorso per le fornaci mezzi di calcolo di tal fatta non esistevano, specialmente nel caso in cui si fosse usato come combustibile il carbone polverizzato la cui combustione è più lenta rispetto agli altri combustibili liquidi e gassosi, e non si può adottare la semplificazione (matematica) di considerarla praticamente istantanea.
Era questa la situazione quando i ricercatori della FRIF ebbero l'idea di analizzare il problema come somma di problemi più semplici: la combustione del carbone in un flusso regolare e il flusso complesso dei gas senza la combustione.
Per misurare il primo fenomeno si costruì una fornace particolare: cilindrica molto allungata in modo che il flusso all'interno non potesse essere che parallelo alle pareti (flusso a pistone).
In queste condizioni la combustione del carbone polverizzato avviene progressivamente man mano che ci si allontana dall'estremità dove è posto il bruciatore. Misurando temperatura e quantità di carbone ancora da bruciare a distanze regolarmente crescenti dal bruciatore si riesce ad esprimere una legge che lega la quantità di carbone ancora da bruciare al tempo trascorso dall'inizio della combustione (equazione cinetica della combustione).
Per misurare il secondo si alimentò con sola aria una camera costruita di materiali ordinari e riproducente la forma della fornace reale e del bruciatore, quindi senza combustione e senza la conseguente temperatura elevata (modello a freddo). In questa situazione si poté misurare con facilità l'andamento dei flussi all'interno della camera, andamento simile a quello che si ha con combustione.
Conosciuti separatamente questi aspetti dei fenomeni della combustione si trattava di ricombinarli con il calcolo, nel senso che si poteva calcolare quanto carbone veniva consumato mentre veniva trasportato all'interno della fornace lungo percorsi ormai noti e da questo risultato risalire alla temperatura sviluppata. Come risultato finale si poteva calcolare l'efficienza della fornace. In pratica si poteva prevedere il funzionamento di una fornace reale prima ancora di costruirla.
Si tratta di un lavoro sperimentale e teorico insieme sulla combustione del carbone polverizzato. Era stato costruito un forno sperimentale con flusso a pistone sul quale era stata misurata la cinetica di combustione in funzione del tempo.
Successivamente era stato costruito un modello a freddo della fornace reale per misurare in ogni punto il flusso dei gas. Infine, con l'uso combinato dell'espressione cinetica e degli schemi di moto misurati sul modello, era stata calcolata l'efficienza della fornace reale.
Il confronto con le efficienze di combustione misurate sperimentalmente aveva decretato il successo di tutta l'operazione. Questo risultato, ottenuto senza l'uso di computer, perché negli anni cinquanta erano a disposizione solo di pochissime organizzazioni, ha dello sbalorditivo.

XI - Ma la FRIF non è solo un centro di cultura che ha svolto ricerche paradigmatiche per i ricercatori del progetto TiO2, ma anche una miniera di dati sperimentali, di metodi, di apparecchi sviluppati originalmente per ogni esigenza di misura nel campo della combustione.
Pertanto viene utilizzata da Colombo come sito esterno per dare una formazione specifica ai ricercatori. Anche lo scrivente, come atto di ingresso nel progetto, ha passato un mese di addestramento sul forno pilota della FRIF, eseguendo misure di velocità, temperatura e composizione chimica all'interno delle fiamme.
La FRIF consente anche ai ricercatori di farsi una esperienza internazionale, partecipando ai vari "panel" e "steering committee".
Il dottor Cadorin, uno stretto collaboratore di Colombo, tiene le fila di tutto questo.
Poiché la Montecatini è l'unica azienda chimica associata alla FRIF (le altre sono principalmente coinvolte nella produzione di energia elettrica), porta una esperienza decisamente unica.
Così Colombo oltre che prendere trova anche il tempo di dare qualcosa alla FRIF e promuove l'istituzione del "chemistry panel", nel quale è centrale la chimica delle fiamme, fino ad allora rimasta indietro rispetto alle scienze fisiche e termotecniche coltivate negli altri "panel".

XII - Al termine di questa fase di riorganizzazione lo spiegamento di laboratori e competenze sul progetto è impressionante:
► l'impianto pilota con il bruciatore tipo Cabot al quale lavora ancora l'ingegner Maiorano. Il dottor Piccolo è frattanto passato alla SIR per ragioni facili da immaginare;
► il laboratorio di caratterizzazione dei pigmenti che impegna per la quasi totalità il laboratorio di microscopia elettronica;
► il laboratorio di cinetica chimica dove viene misurata la cinetica di combustione del tetracloruro di titanio con ossigeno;
► l'installazione pilota per lo studio della ossidazione del tetracloruro assistita con arco elettrico;
► l'installazione scala pilota per misure della cinetica di accrescimento delle particelle pigmentarie, con un approccio simile a quello della FRIF sul carbone polverizzato;
► laboratorio di prove fluidodinamiche dove con modelli trasparenti e con flussi di aria fredda si simula il moto dei fluidi all'interno dei reattori, anche questa tecnologia dei modelli a freddo è mutuata dalla FRIF e viene impiegata sotto la responsabilità dello scrivente;
► il gruppo degli ingegneri di processo impegnati a progettare un nuovo e più efficiente impianto pilota;
► il gruppo degli ingegneri impegnato a progettare apparecchi speciali. Tra questi l'ing. Bedetti progetta nuovi e più efficienti bruciatori, in cui i fluidi anziché fluire assialmente sono animati da un moto elicoidale, che nell'esperienza del progettista, confortata in pieno da quella della FRIF, assicurano un miscelamento più efficiente ed una combustione più rapida. Poiché in presenza di cloro ad alta temperatura si hanno dubbi sulla tenuta nel lungo termine dei materiali metallici si progetta anche un bruciatore realizzato completamente in quarzo;
► il gruppo degli ingegneri impegnato nella realizzazione di strumenti di misura capaci di funzionare nell'ambiente aggressivo da cloro e carico di finissime particelle di pigmento sospese nel gas di combustione.
Tra queste: sonde per misurare la temperatura, la velocità dei fluidi, la velocità di deposizione delle particelle solide, dei coefficienti di scambio termico tra gas di combustione e pareti.
A questo punto, con la costituzione di un gruppo di ricercatori di dimensioni ed equipaggiamento adeguati i problemi interni del progetto possono essere considerati risolti.

XIII - Colombo pone allora mano agli aspetti strategici della ricerca. Evidentemente una ricerca di inseguimento ha tanta più speranza di successo quanto più folto è il gruppo degli inseguitori.
Poiché solo Du Pont usa efficacemente la tecnologia via cloro ed è leader del mercato, devono essere in molti a desiderare di entrarne in possesso.
Colombo trova un partner nella New Jersey Zinc (NJZ) con la quale stipula un contratto per un progetto congiunto di sviluppo della tecnologia.
In base a tale accordo NJZ paga un milione di dollari come biglietto di ingresso per portarsi alla pari con Montecatini, che fino ad allora può dimostrare di avere speso per il progetto due milioni di dollari.
Per il futuro le spese sono divise a metà, così come la proprietà dei risultati. Il grosso delle ricerche continuerà a svolgersi a Novara, mentre presso NJZ si svolgeranno solo caratterizzazioni dei pigmenti, compito nel quale loro sono fortissimi.
Nel programma viene incluso anche lo studio su scala pilota della produzione del tetracloruro di titanio a partire da ossido di titanio minerale.
Questo è uno sviluppo naturale del progetto ed assicura che alla fine il know-how sarà completo dal minerale al pigmento.
Il Joint Research Project (JRP) prevede un comitato congiunto che si riunisce ogni tre mesi per sorvegliare l'avanzamento dei lavori.
Prevede inoltre che un gruppo di tre americani, due ingegneri ed un supervisore, risieda permanentemente a Novara con funzioni di controllo.

XIV - L'accordo del JRP è un colpo da maestro. In un'unica azione si dimezzano le spese di ricerca e si raddoppia il mercato di riferimento per il progetto, riducendo i rischi finanziari e commerciali.
Ci si assicura inoltre la conoscenza del prodotto e del mercato di un operatore già attivo. Si completa il ciclo dal minerale al pigmento, riducendo i rischi di insuccesso tecnico.
Di importanza sicuramente minore, ma non per questo trascurabile il JRP comporta un rafforzamento del management del progetto, formalizzando il metodo di revisione collettiva degli obiettivi e dei risultati già introdotto da Colombo.

XV - Non appena il JRP comincia a funzionare si può finalmente mettere mano all'unico aspetto del progetto finora lasciato immutato: la tecnologia di combustione.
La domanda fondamentale, che Colombo pone nei fatti, può essere così esplicitata: se stiamo inseguendo Du Pont, leader tecnologico e di mercato, perché lo facciamo imitando la Cabot? O cercando alternative, ad esempio l'arco elettrico, che promettono complicazioni in vista di non si sa quali vantaggi?
Il pragmatismo degli americani della NJZ dà la risposta più ovvia: fa comparire un signore, che pur non dicendo niente di Du Pont, si mostra abbastanza al corrente da poter consigliare in quale direzione andare.
Per esempio, secondo me dice con un reattore pilota fatto come questo ed estrae un foglio A4 schizzato a mano dovreste ottenere un prodotto pigmentario di sicura soddisfazione. Lo schizzo rappresenta un reattore tubolare di 100 millimetri di diametro, molto simile a quanto si sapeva del reattore Du Pont, con una camera di combustione tra CO e ossigeno nella parte alta, una fenditura anulare per l'introduzione del TiCl4 ed una lunga camera sottostante (sempre di mm 100) dove si sarebbe dovuto formare il pigmento. La precisa indicazione del diametro sembrò avere valore solo indicativo.
La decisione di Colombo e del management americano è chiara: il nuovo pilota avrà un reattore corrispondente a quello schema.

XVI - Con questa decisione si può dire che la fase di riorganizzazione del progetto, durata all'incirca tra il 1965 e il 1966, sia finita e che a questo punto idealmente si ceda la scena ai ricercatori: l'organizzazione funziona, i mezzi sono tutti a disposizione, è il momento che chi li ha in carico cominci a farli fruttare.
Questo passaggio avviene non senza scosse. Gli ingegneri si mettono al lavoro per progettare il nuovo bruciatore. Si mettono a ragionare sullo schizzo che è stato proposto e cercano di trovarci una razionalità, che, se c'è, appare ben nascosta. Nel cercare di valutarlo si dà più importanza alla forma che alle dimensioni. In particolare il diametro di 100 mm sembra eccessivamente grande, specialmente se si tiene in mente la necessità di miscelare rapidamente, che al momento sembra imprescindibile.
Quanto appare assai probabile è che il reattore, seguendo pedissequamente lo schizzo, non misceli con sufficiente rapidità e che vada riprogettato a fondo. Con le migliori intenzioni si fa qualcosa che appare sensato, ma che si rivelerà un errore.
Il reattore viene ridotto di diametro per facilitare la penetrazione del tetracoloruro di titanio nella corrente di ossigeno. Ne risulta qualcosa che assomiglia all'originale ma ne differisce in una quantità di particolari.

XVII - Altri fatti disorientano il gruppo di lavoro. Il bruciatore con moto elicoidale, provato nel vecchio pilota dà risultati, se possibile, peggiori di quello assiale.
Tentativi ripetuti di migliorare ulteriormente la sua capacità di miscelare i reagenti non danno miglior esito. Frattanto Maiorano continua le prove col suo bruciatore assiale.
Stimolato dal clima generale lo modifica in modo che la combustione avvenga in due stadi: nel primo il CO brucia in forte eccesso di ossigeno generando un gas caldo ossidante, che successivamente fa bruciare il tetracloruro di titanio.
Tutto ciò diversamente dalla pratica consueta, nella quale per facilitare la miscelazione, si tende a portare in contatto i tre componenti allo stesso momento. Il risultato è un prodotto pigmentario che comincia a somigliare al sospirato R 900.
Ma perché le cose vanno meglio quando la scienza dice che dovrebbero andare peggio? Le discussioni sono serrate. In questa fase Colombo si pone come una guida per i molti giovani e ancora inesperti ricercatori cercando di razionalizzare quanto succede.
Il suo intento è chiaramente di evitare il disorientamento del gruppo così faticosamente costruito, facendo vedere che ci si può logicamente districare anche attraverso fatti apparentemente contraddittori.

XVIII - Questo periodo è segnato da un'alta mortalità dei filoni di ricerca precedentemente avviati. Il bruciatore assiale viene chiuso nonostante i buoni risultati, perché si presume di riprodurli su bruciatore tipo Du Pont, nel quale la combustione del CO e del tetracloruro di titanio sono separate.
La stessa fine fanno i bruciatori con moto elicoidale. Cade nel dimenticatoio il metodo di riscaldamento con arco elettrico. Falliscono le prove cinetiche su scala pilota: per difetto di progettazione il riscaldamento esterno del reattore con flusso a pistone è disuniforme e provoca la rottura del tubo di allumina che costituisce il reattore medesimo.
Si rinuncia alle tecniche di misura all'interno del reattore e ad una quantità di altre iniziative sparse in favore di una maggior concentrazione di forze. Anche dove si hanno risultati di buon livello ci si trova ugualmente in situazione di stallo.
Questo avviene per le cinetiche di combustione del TiCl4 e per le misure fluidodinamiche eseguite su modelli a freddo dei reattori con bruciatore a moto assiale ed elicoidale. I risultati ci sono, ma di per sé non hanno una valenza operativa immediata per chi deve mettere a punto il processo.
Per esempio nella cinetica di ossidazione l'ordine di reazione dell'ossigeno è 1/2. Che cosa dedurne?
Oppure le prove fluidodinamiche mettono in evidenza che un bruciatore a moto elicoidale miscela più rapidamente di uno assiale, ma induce una ricircolazione più intensa nella camera di combustione. Quale dei due comportamenti è migliore e perché?

XIX - Il peggio peraltro deve ancora venire. Quando il nuovo pilota tipo Du Pont è finalmente costruito e provato si ha un'amara sorpresa. Il prodotto non è pigmentario!
Visto al microscopio elettronico risulta fine, uniformemente disperso ma fine.
Come si sa dalla teoria ottica delle particelle pigmentarie esse devono avere un diametro di circa la metà della lunghezza d'onda prevalente nella luce visibile, per diffondere al massimo la luce e sviluppare un bel bianco coprente.
Ciò porta ad un diametro di circa 0,22 µ. Ma le particelle che escono dal nuovo reattore sono molto più piccole: il loro diametro medio non supera gli 0,12 µ e di potere coprente non se ne parla.
Questo è un problema nuovo per il gruppo di lavoro, infatti con gli altri tipi di bruciatore il problema era semmai l'opposto: non si riusciva a liberarsi di un gran numero di particelle che riuscivano sempre troppo grosse.
Anche nel caso che il diametro medio fosse più o meno quello giusto, si trovava sempre una coda di particelle molto grosse.
Ora invece le particelle sono tutte uguali e tutte fini.
Volenterosamente gli ingegneri che hanno in carico l'impianto pilota si affannano a cambiare temperature, portate e tutte le condizioni di prova che potrebbero avere un'influenza, ma con scarsi risultati.
Le particelle restano irrimediabilmente piccole. C'è da rimanere senza parole.

XX - Al primo "JRP Committe Meeting" alla cosa non venne dato peso. L'impianto era stato appena avviato ed un periodo di adattamento era scontato.
Ma alla riunione successiva, quando gli americani si accorgono che in tre mesi progressi non se ne sono fatti, viene giù il mondo. Gli americani, a giudicare da quanto si sente dal corridoio fuori della Sala Consiglio, sostengono con vigore il loro buon diritto a vedere buoni risultati in tempi ragionevoli.
Una cosa è chiara: se dopo altri tre mesi le cose non cambiano, si potrà dare l'addio al JRP. La tensione è altissima e se ne tentano di tutte per uscire dall'impasse. Accanto all'impianto pilota lavora molto il laboratorio di misure fluidodinamiche.
Nei mesi trascorsi qualcosa si è vagamente intuito. La sensazione è che tutto sia determinato dal modo in cui i reagenti vengono messi in contatto e pertanto si simula il processo di miscelazione su modelli a freddo e si misura la distanza dagli ugelli alla quale il miscelamento può considerarsi completo.
Anche questo fattore non sembra poter spiegare niente e conferma il lavoro dei progettisti: la miscelazione è indubbiamente rapidissima.
Le discussioni su questo punto sono infinite.

XXI - La storia del progetto attraversa quella dell'azienda.
Mentre si consuma la grave crisi la Montecatini viene incorporata nella Edison.
I cambiamenti a livello aziendale si riflettono anche sul progetto.
Nell'ingegneria l'ingegner Gatti lascia e viene sostituito dal prof. Paolo Bortolini di provenienza Edison.
Bortolini è un grande tecnico ed alla Edison ha costruito ben quattro impianti studiando in proprio la tecnologia, aiutato soltanto da una piccola squadra di collaboratori.
La sua esperienza pratica però è in campi diversi da quello delle reazioni ad alta temperatura e vede le cose in modo molto intuitivo.
I suoi suggerimenti per ottenere un buon miscelamento sono qualitativi ed ottengono gli stessi risultati insoddisfacenti che ormai da mesi affliggono tutti.
Evidentemente anche lui intuisce che il problema sta nel miscelamento, ma vi gira intorno senza trovare una soluzione definitiva.

XXII - Chi la trova è Aldo Ducato, giovane e brillante ingegnere responsabile delle prove sull'impianto pilota.
Egli inoltre, in stretta collaborazione con il responsabile, segue molto da vicino le prove del laboratorio di fluidodinamica, tentando di interpretare le prove del pilota alla luce di quelle.
Lo spirito della FRIF, introdotto da Colombo, in questa collaborazione viene scrupolosamente applicato: i risultati delle prove pilota e dei modelli a freddo vengono analizzati insieme. I modelli a freddo misurano grandezze che nel pilota, dove non si può entrare perché è d'acciaio ad alta temperatura, non si possono misurare.
Così sono molti i parametri relativi al miscelamento, misurati sui modelli a freddo, che vengono presi in considerazione per spiegare i risultati del pilota: la lunghezza di penetrazione del TiCl4 dalla fenditura all'interno del reattore; la distanza a valle della fenditura alla quale TiCl4 e gas caldi contenenti ossigeno alla quale la loro miscelazione è completa; la velocità con cui il TiCl4 entra nella corrente di gas caldi.
Tutti sembrano avere una certa influenza, ma non spiegano in pieno il comportamento del pilota.
È così che ad un certo momento Ducato si rende conto di quale sia il fattore che variando rende le particelle del pigmento piccole o grandi.
Lo grida addirittura nel corridoio, il lungo corridoio del Donegani che dagli impianti pilota porta agli uffici.
Ha appena visto i risultati di una marcia a portata ridotta, in cui le particelle, senza essere ancora pigmentarie, sono finalmente uscite un bel po' più grandi.
Avvista lo scrivente all'altra estremità del corridoio e, per l'impazienza di comunicare subito la notizia, da lontano grida:
- Ho capito che cosa è! È il tempo di miscelamento! È chiaro: riducendo la portata sono diminuite le velocità dei fluidi e quindi è aumentato il tempo necessario per raggiungere il punto dove la miscelazione si completa!
Bastò poi aumentare da 45 mm a 100 mm il diametro del reattore e della fenditura del TiCl4 perché il rallentamento dei fluidi conseguente alla maggiore area a disposizione del flusso faccia aumentare il tempo del miscelamento di circa 10 volte, sufficiente perché il prodotto, da troppo fine diventi pigmentario.
Fino ad allora si era pensato che il miscelamento dovesse essere il più rapido possibile, ora scopriamo che se vogliamo ingrandire le particelle dobbiamo rallentarlo.
Mancano solo due settimane al prossimo "JRP Committee Meeting", ma sono sufficienti a consolidare il risultato ed a portare nella riunione campioni di un buon prodotto pigmentario.
È bastato ingrandire il diametro del reattore nella parte dove avviene il miscelamento ed ivi il tempo di soggiorno aumenta abbastanza da fare il risultato.
Ci si accorge allora dell'errore commesso quando il reattore pilota era stato riprogettato rimpiccolendolo rispetto allo schizzo che ci era stato proposto.
Sarebbe bastato non cambiare il diametro ed avrebbe funzionato al primo colpo. Un errore pagato con sei mesi di lavoro a vuoto correndo il rischio di dover chiudere bottega.
Alla riunione del JRP gli Americani della NJZ sono apertamente soddisfatti e si complimentano con Colombo per aver fatto un prodotto potenzialmente superiore al tanto decantato R 900.
Chiedono addirittura di far venire in Sala consiglio i ricercatori per esternare loro direttamente il compiacimento per l'eccellente lavoro svolto.
È una soddisfazione grandissima.

XXIII - Da quel momento la strada è tutta in discesa. Il tempo di miscelamento è facilmente misurabile con le prove fluidodinamiche.
La macchina organizzativa messa in piedi da Colombo dà ora i suoi frutti.
Infatti per ogni assetto geometrico del reattore pilota viene costruito un modello a freddo ed il tempo di miscelamento accuratamente misurato.
Le misure di questo tipo richiedono la determinazione della concentrazione di un tracciante in molti punti e sono quindi tediosamente lunghe.
Per tenere il passo con il pilota, che può cambiare condizione due volte per turno, è necessario che in laboratorio si lavori su due turni giornalieri.
Ma l'organizzazione, galvanizzata dai successi, tiene bene e in breve si accumula una tal messe di dati, che si può fare una regressione predittiva del diametro delle particelle pigmentarie a partire dal tempo di miscelamento.
Anzi al continuo affluire di nuovi dati la regressione dovrebbe essere frequentemente aggiornata.
C'è però un problema: il Donegani non dispone di un computer e i dati bisogna portarli al centro di calcolo scientifico in sede a Milano, attrezzato con il mitico Elea 6001, dove, cortesemente, quando hanno tempo libero da altri lavori, provvedono.
Un promemoria sui rallentamenti causati dalla situazione scatena Colombo, che abbatte ogni ostacolo ed in pochi giorni fa installare a Novara un terminale dell'UNIVAC 9003 del Politecnico di Milano.
Finalmente si riesce a fare regressioni su tutti i dati disponibili ed a dimostrare che sono pienamente affidabili in senso predittivo.

XXIV - Questa realizzazione non è a livello del mitico modello matematico del carbone polverizzato realizzato alla FRIF, ma per i ricercatori che le hanno trovate le regressioni sono motivo di esaltazione.
È la prima volta che capita loro di riuscire a collegare i risultati dell'impianto pilota con misure collaterali quali sono quelle fluidodinamiche.
Qualcosa di simile era possibile solo per processi di consolidata tradizione, dove i risultati degli impianti venivano predetti a partire da ben consolidate considerazioni termodinamiche.
Nel caso del TiO2 si calcola il diametro di particelle pigmentarie solide a partire dalla misura del volume occupato dalla miscelazione dei gas.
Si crea un collegamento tra grandezze tra le quali a prima vista non si vede quale connessione debba esserci. Ad evitare critiche di casualità alla correlazione viene trovato un supporto teorico.
La verità è che il supporto teorico era già stato fornito da Mario Dente, giovanissimo ordinario del Politecnico di Milano.
Dente, qualche tempo prima aveva analizzato i bruciatori tipo Cabot ed aveva introdotto i concetti di nucleazione di particelle solide dalla fase gas e di accrescimento per deposizione superficiale e coalescenza.
Aveva applicato i concetti rigorosi della termodinamica dei sistemi eterogenei ad un ambiente estremamente esotico, presupponendo situazioni strane come la presenza di TiO2 in forma gassosa.
Sarà per l'esoticità di queste assunzioni, sarà per l'arditezza della estrapolazione, ma il lavoro di Dente era rimasto senza un seguito pratico.
Una cosa è certa: il lavoro era troppo avanzato per lo stato della sperimentazione nel momento in cui venne proposto ed anche rispetto alla cultura media dei ricercatori.
Inoltre nel momento in cui cominciarono i problemi delle particelle troppo piccole, il gruppo di lavoro ebbe la classica reazione di immergersi il più possibile nella pratica di tutti i giorni senza farsi distrarre da considerazioni teoriche.
È così che un contributo fondamentale che avrebbe indirizzato verso una rapida soluzione del problema rimase ignorato.

XXV - Ma, meglio tardi che mai, viene ripreso.
Per chiarire la situazione a quelli che non hanno ancora capito e per convincere gli scettici sulle regressioni lo si volgarizza così: se la miscelazione è rapida si crea d'improvviso una grande quantità di TiO2 gassoso, la cui pressione parziale alla temperatura della fiamma supera di gran lunga la sua tensione di vapore rispetto al solido.
Il gas è fortemente soprassaturo. In condizioni di forte soprassaturazione il TiO2 precipita come solido formando un gran numero di nuclei di dimensioni molto piccole: si ottengono così particelle finali a loro volta numerose e piccole.
Se il miscelamento è più lento il TiO2 in fase vapore si crea gradualmente ed ha tempo di precipitare senza mai raggiungere forti soprassaturazioni.
In tali condizioni di soprassaturazione debole il solido precipita con nuclei più grandi e meno numerosi e così saranno le particelle finali.
Se il miscelamento è estremamente lento finiranno per prodursi particelle così grosse da avere scarse proprietà pigmentarie.
Si creerebbe il problema opposto a quello incontrato sul reattore pilota tipo Du Pont.
In questo modo finalmente viene spiegato il perché del valore predittivo dei tempi di miscelazione misurati con le prove fluidodinamiche.

XXVI - Avere in mano questa regressione predittiva consente di fare prodotti su misura.
Il destro per usarla ufficialmente viene dagli stessi americani i quali notano che non è stato mai ottenuto un buon prodotto "brown tone", cioè bianco come gli altri, ma con una sfumatura di marrone, come richiesto da certi mercati.
Fino ad ora l'impianto ha prodotto prevalentemente "blue tone".
La differenza di toni nel colore è dovuta al diametro delle particelle: se il diametro è quello giusto (0,22µ) il prodotto è bianco senza tonalità prevalente; se è un po' più piccolo (0,18µ - 0,20µ) ha un tono blu; se è un po' più grande (0,24µ 0,26µ) ha tono marrone.
Nella riunione decisionale i ricercatori si presentano proponendo condizioni di marcia per il pilota mai sperimentate prima, ma che secondo le loro regressioni dovrebbero portare ad un diametro di 0,25µ in piena regione del tono marrone.
Le regressioni consentono anche di predire che il coefficiente di dispersione dei diametri attorno alla media sarà basso abbastanza da dare una buona qualità del pigmento, sensibile negativamente alla disuniformità dei diametri.
I delegati americani, capitanati da Mr. L. Held, respingono la proposta.
Loro alle regressioni credono poco e non se la sentono di affidarsi a condizioni di prova mai viste dalle quali chissà che cosa può venire fuori.
Contropropongono di riprodurre una prova che circa tre mesi prima aveva dato un prodotto "brown tone".
Si consultano le carte del pilota e viene fuori che quella prova aveva davvero dato un prodotto marrone, ma di qualità pigmentaria assai scadente, quindi non valeva la pena di riprodurla.
Lo confermano le foto al microscopio elettronico, che mostrano una dispersione di diametri grandissima e la presenza di aggregati e grosse particelle che a quell'ingrandimento sembrano palle da golf.
Gli americani ribattono:" Noi vendiamo pigmenti e non fotografie, ripetete la prova lavorando bene ed otterrete non solo il tono voluto ma anche un pigmento di buona qualità."
È lo scontro di due mentalità inconciliabili, ciascuna sostenuta dalla convinzione di avere buone ragioni.
Alla fine prevale la mediazione del dott. Cadorin che presiede la riunione: metà delle prove si faranno come desiderano gli ospiti americani e metà come propongono i ricercatori italiani.
La prova dei fatti dà ragione agli italiani: le prove da loro proposte forniscono un bel prodotto di tono marrone, mentre le altre ripetono pari pari i cattivi risultati della prova che volevano riprodurre.
È la conferma ufficiale che il nuovo pilota è in grado di dare tutta la gamma di prodotti che il mercato richiede.

XXVII - Le cose vanno bene anche dal punto di vista brevettuale.
Nell'ottobre 1969 il prestigioso studio Stiefel di New York, che cura gli interessi brevettuali della Montedison in USA, si prepara all'esame brevettuale finale.
Dopo alcune richieste di chiarimenti, Stiefel in persona si complimenta per l'ingegnosità del trovato e prevede un pieno successo perché il nuovo reattore è fuori dai brevetti Du Pont.
Nel 1970 il brevetto è concesso.
Ci sono voluti 30 anni perché nell'industria del TiO2 pigmento qualcuno ottenesse qualcosa di indipendente da Du Pont e di valore paragonabile.

XXVIII - Se c'è un dubbio possibile, c'è sempre qualcuno che se lo fa venire.
L'ultimo venne fugato nel 1970.
Tutto bene, si diceva, in questo pilota sapete fare ciò che volete a 50 kg/h. Chi ci dice quale sarà la qualità del prodotto quando dovremo operare a 100 o 200 t/giorno?
Si noti come il dubbio si fondi più che su dati o possibili effetti fisici avversi sul concetto quasi metafisico di qualità. Se però il dubbio è forte vale la pena di fugarlo.
Presto fatto. Si costruisce un reattore pilota da 150 kg/h e lo si fa marciare in parallelo a quello piccolo in condizioni di similitudine, come comanda la teoria dello "scale-up".
Il risultato sorprende solo i dubbiosi ed il prodotto esce identico dai due reattori alle due scale diverse.
La qualità comunque definita è identica, dimostrando così che è un concetto impalpabile e volatile solo quando si è a corto di conoscenze fisiche.

XXIX - I successi del 1968-1969 non restano chiusi all'interno del gruppo di lavoro, ma si comincia a percepirli anche all'esterno ed in particolare al DIPI.
E il DIPI (Divisione Prodotti per l'Industria) è il committente del progetto.
Quando si dice committente bisogna intendersi: chi scrive non è mai stato al corrente dell'esistenza di un formale documento del DIPI che facesse formale richiesta al DIRI (Divisione Ricerche) di eseguire proprio quel determinato progetto.
Se una carta del genere è mai esistita risaliva almeno agli anni cinquanta, ai tempi della Montecatini di Piero Giustiniani. Insomma è assai probabile che il "commitment" del DIPI fosse stato espresso solo a parole.
Questo spiega quanto un lettore accorto non avrà mancato di notare: fino a questo punto il DIPI non è mai comparso sulla scena del progetto giocando una parte rilevabile.
È chiaro che l'intraprendenza di Colombo riesce a smuovere le acque ed il top management del DIPI, con il capo divisione in testa, viene a visitare il Donegani.
Girano laboratori e impianti, si chiudono in sala riunioni, ma non si sa se e cosa deliberino.
Per il progetto niente cambia e dai ricercatori l'evento sarà ricordato solo come quella volta che faticarono a ripulire, a lustrare gli apparecchi, a fare bella figura insomma.
In quel che filtra dalla Sala Consiglio non c'è traccia di apprezzamento (altra gente gli americani).
Se qualcosa dicono è per esprimere dubbi su tutto.
Sul prodotto, sulla qualità. Sul processo, complesso. Sulla materia prima, introvabile.
Forse si tratta solo dello stile di management, austero e poco incline alle pacche sulle spalle.

XXX - Che l'atteggiamento del DIPI non sia positivo, lo si vede chiaramente qualche mese più tardi, quando tutti gli esperimenti possibili sono stati eseguiti, tutti i dubbi debitamente controllati, tutti gli sfizi levati e il progetto si può dire assolutamente concluso.
La NJZ valuta il progetto non solo concluso, ma positivamente concluso e chiede a Montedison di procedere subito alla costruzione di un primo impianto industriale in Europa, al quale loro avrebbero fatto immediatamente seguire un impianto in USA, non appena il primo fosse felicemente andato in marcia.
Per gli americani è logico che faccia il primo passo chi ha svolto tutto il lavoro, ha il know-how in casa e tutto il personale specializzato.
Anzi che lo faccia presto perché se di ricerca di inseguimento si tratta, è bene che l'inseguimento si concluda presto.
Ma il DIPI risponde negativamente.
Questo atteggiamento frena gli entusiasmi della NJZ.
Secondo loro la questione di chi debba agire per primo riguarda più l'opportunità che la strategia e la Montedison dovrebbe essere impaziente di cominciare.
Se così non è il significato non può essere che uno solo: la Montedison non si fida dei suoi stessi risultati.
Che poi sia il DIPI che non si fida del Donegani è per loro del tutto inessenziale.
Tutto ciò fa pensare che qualcosa noto agli italiani sia sfuggito alla delegazione americana, nonostante la stretta sorveglianza esercitata per anni.
A causa di questo atteggiamento del DIPI la NJZ rimarrà ferma per alcuni anni.

XXXI - Il DIPI un impianto per produrre biossido di titanio pigmentario però lo vuole.
Il mercato tira e produrre in Italia sembra un buon affare. La decisione su cosa fare provoca uno scontro all'interno dell'azienda.
Chi scrive ha sentito personalmente Colombo dire di essersi battuto allo spasimo a fianco del prof. Mazzanti, allora direttore delle ricerche Montedison perché fosse adottata la tecnologia via cloro studiata a Novara, ma di avere incontrato la ferma opposizione del DIPI e soprattutto dell'ingegner Rando, allora capo della pianificazione.
La decisione pende verso l'acquisizione del know-how dalla Titan Gesellschaft, che opera un impianto nella Germania settentrionale con la tecnologia via solfato.
Le motivazioni di questa scelta sono sostanzialmente due. La prima riguarda la materia prima.
La tecnologia via solfato può usare come materia prima il minerale ilmenite, che contiene circa il 50% di minerale ferroso, agevolmente rimosso dal processo e scaricato in mare come scarto.
Il processo via cloro, al contrario, richiede di partire dal minerale rutilo, che è particolarmente puro e non è facilmente reperibile sul mercato.
Il fatto che Sironi localizzi alcune miniere di rutilo in vendita in Australia non fa mutare l'atteggiamento della divisione. La seconda motivazione riguarda il rischio tecnico.
La tecnologia di Titan Gesellschaft è consolidata, c'è l'impianto che marcia, le bettoline che scaricano la scoria ferrosa nel mare del Nord.
Inoltre siamo ormai negli anni settanta e la mentalità autarchica dell'anteguerra è, con ragione, caduta in disuso.
Dall'America si è importata l'idea che spesso è meglio comprare una tecnologia che produrla in casa.
Rando si fa portatore di questa concezione in modo molto rigido, quasi che sia imperativo comperare sempre e creare mai.
Certo la tradizione tecnologica della Edison, da cui Rando proviene, non è così antica e gloriosa come quella della Montecatini, che risale a Fauser e agli anni venti.

XXXII - La decisione produce l'impianto di Scarlino che nel breve volgere di due anni dimostra chiaramente la propria insostenibilità dal punto di vista ambientale.
Da notare che la Titan Gesellshaft, con mossa assai sospetta, appena l'impianto di Scarlino è in marcia, chiude il proprio impianto nella Germania settentrionale.
Evidentemente lo scarico di scorie sta passando di moda anche nel Mare del Nord. Scarlino viene identificato dalla stampa come una intollerabile fonte di inquinamento del mare da parte dei famosi fanghi rossi, ed appare evidente a tutti che costruirlo è stato un cattivo affare.

XXXIII - Nel 1974-1975 si compie l'ultimo atto.
NJZ torna alla carica. Ha comprato da un'azienda concorrente un impianto con tecnologia via cloro del tipo Cabot.
Con l'impianto hanno anche comprato la tecnologia di arricchimento dell'ilmenite, che produce rutilo artificiale, impiegabile nel processo via cloro.
NJZ ha intenzione di costruire un impianto secondo il processo sviluppato congiuntamente con Montedison.
Per ridurre il rischio tecnico, si pensa di realizzare una via di mezzo tra un pilota ed un industriale, della potenzialità di 1/3 delle linee tipo Cabot che già hanno.
Viene sottoscritto un nuovo accordo tra NJZ e DIPI. In procinto di sprofondare nei fanghi rossi, la Divisione finalmente si muove e partecipa all'iniziativa, progettando il nuovo reattore in collaborazione con Donegani.
Tecnicamente la manovra riesce: non solo il reattore semiscala funziona, dopo un magistrale start-up compiuto sotto la regia dell'ing. Giuseppe Uglietti del Donegani, ma dà un prodotto di qualità eccellente. Ad averne!
Presa confidenza col nuovo prodotto NJZ comincia ad aggiungerlo nella proporzione del 10% ad altri suoi prodotti per farne un "up-grading".
Nonostante questi successi il periodo di sperimentazione previsto dal contratto si chiude senza che la Divisione prenda alcuna iniziativa, mentre NJZ abbandonata al suo destino per la seconda volta continua ad esercire il nuovo impianto, del quale col tempo si perdono le tracce.
Così si spegne anche il secondo contratto dopo aver acceso tante speranze. Alla fine degli anni ottanta i brevetti che coprivano il processo sono scaduti e la storia si chiude senza che la ricerca abbia visto alcun serio tentativo di applicazione industriale.

XXXIV - Chi ci ha seguito fin qui si porrà con noi una domanda: perché una ricerca che:
► è nata per soddisfare reali esigenze di mercato;
► è stata dotata di competenze e mezzi adeguati;
► ha impiegato le migliori tecnologie disponibili al momento della sua esecuzione;
► ha avuto successo portando ad un prodotto migliore della concorrenza;
► ha usufruito di un partner con cui dividere oneri e rischi,
non ha trovato modo di arrivare ad uno stadio commerciale?
Alcune delle possibili ragioni sono già state esposte parlando della decisione di costruire Scarlino.
Si tratta:
I) della disponibilità di materie prime e
II) del rischio tecnico connesso ad un processo sviluppato solo in pilota. Altre non sono mai state esplicitamente poste, ma col tempo se ne è potuta avere ufficiosamente una eco, parlando magari con un collega della divisione alla macchina del caffè.
Nonostante il loro carattere ufficioso sono ugualmente significative di come all'interno del DIPI la questione era stata posta da chi aveva preso la decisione avversa e doveva in certo qual modo giustificarle agli occhi degli altri.
Le principali di queste sono:
III) che la tecnologia via cloro fosse economicamente svantaggiosa rispetto a quella via solfato e
IV) che il prodotto del Donegani mancasse di riproducibilità.
XXXV - Ma quale validità avevano quegli argomenti? Ad un attento esame nessuna.
Cominciamo con la questione della riproducibilità.
Mettiamo da parte la sensazione che si tratti di un argomento di comodo, ammettiamo pure che il fatto sia vero.
Ammettiamo pure che gli esperti di pigmenti del DIPI, di sicura professionalità, abbiano trovato, esaminando i campioni loro inviati, che tra una prova e l'altra qualche proprietà del pigmento avesse variazioni maggiori di quanto un esperto potesse accettare.
C'è da chiedersi perché non ne abbiano fatto parola con qualcuno, perché non siano piombati sul luogo dove le ricerche si svolgevano, chiedendo, anzi imponendo con la forza dei committenti, che il problema fosse risolto.
Il gruppo di lavoro del progetto TiO2 era robusto abbastanza da riuscirci in tempi ragionevoli.
Solo dopo un eventuale fallimento di questa sperimentazione si sarebbe a buon diritto potuto dire che in ultimo il progetto era fallito per non essere riusciti a ottenere una adeguata riproducibilità.
Invece no. Apparentemente la cosa viene trattata come un vergognoso segreto, di cui far parola solo con gli amici intimi, ma soprattutto da tenere celato agli interessati.
Delle due l'una: o la cosa era vera ed il comportamento del DIPI è stato quanto meno irrazionale, o l'argomento è semplicemente pretestuoso.

XXXVI - Passiamo a considerare l'aspetto economico.
Un preventivo di costo di impianto era stato accuratamente redatto alla fine del progetto e nessuno se ne era lamentato.
Nessuno aveva suggerito, per esempio, di sostituire il filtro elettrostatico per la captazione del prodotto con un più economico filtro a maniche, come aveva fatto NJZ per il suo semiscala.
Nessuno aveva suggerito di riprendere la sperimentazione per sottoporre alla prova dei fatti varianti meno costose del processo.
C'è da credere che il DIPI avesse considerato il processo via cloro così disperatamente costoso da rendere velleitaria ogni azione di riduzione dei costi.
Anche in questo caso ammettiamo che sia vero, per quanto sia difficile da ammettere vista la complicazione dell'impianto via solfato.
Ne consegue un paradosso: Du Pont, incontestato leader mondiale, tiene questa posizione con una tecnologia molto più costosa di quella dei concorrenti.
Come fa? Perde soldi per la bellezza di fare un prodotto come R 900?
Pare improbabile. Ciò che appare probabile è che qualunque fossero i costi del processo via cloro la qualità del prodotto facesse premio su di essi.

XXXVII - Il problema dell'affidabilità della tecnologia sviluppata da Donegani è più complesso.
Da un lato è vero che la Titan Gesellschaft poteva vantare un impianto industriale in marcia, mentre a Novara esisteva solo un impianto pilota.
Dall'altro lato basta citare alcuni particolari per capire che la tecnologia offerta dai tedeschi era molto arretrata.
I reattori dove si effettua l'attacco acido ("le tine") sono realizzati in legno di ulivo, a quanto pare l'unico materiale in grado di resistere alle condizioni di reazione.
Nei reattori quindi non c'è possibilità di scambio di calore attraverso la parete e la reazione, fortemente esotermica, si svolge in condizioni pressoché adiabatiche, a parte la libera evaporazione dalla parte superiore a cielo aperto.
L'unico modo di controllare la temperatura dei "batch" è l'accurato dosaggio dei reagenti.
Un errore in questa fase può portare a reazioni incontrollate senza alcuna possibilità di interventi correttivi.
Poiché la reazione produce una pasta molto viscosa la possibilità di smaltimento del calore in eccesso dalla cima del reattore è legata a fenomeni di ebollizione di questa specie di magma, che possono essere anche molto violenti.
Di questo si ha tragica conferma quando una delle tine si surriscalda, entra in eruzione, proiettando parte del contenuto all'esterno attraverso la sommità aperta.
Il materiale caldissimo e fortemente acido investe la cabina di controllo causando la morte di tre persone.

XXXVIII - Un altro aspetto del processo Titan Gesellshaft che dà da pensare è il traffico di bettoline tra l'impianto di Scarlino e la Fossa della Vedova, un tratto di mare profondo 400 m al largo dell'isola d'Elba.
Vi venivano scaricate ogni anno decine di migliaia di tonnellate tra acido solforico diluito e fanghi di solfato ferroso.
Le proprietà acide e riducenti della miscela erano ovviamente dannosissime per ogni forma di vita marina.
Fosse stato anche materiale inerte anziché aggressivo, il semplice depositarsi di fanghi sul fondale in così grande quantità avrebbe alterato profondamente l'ecosistema.
Nei primi anni settanta, quando l'impianto fu costruito, la sensibilità ambientale del pubblico non si era ancora risvegliata, per quanto i primi sintomi si cominciassero già a vedere specialmente all'estero.
C'è da chiedersi se qualcuno del DIPI si sia preso la briga di verificare come queste cose venivano accettate nella Germania settentrionale e negli altri paesi rivieraschi del Mare del Nord.
Forse un'occhiata alla stampa locale avrebbe potuto mettere sull'avviso, se dopo meno di due anni il permesso di scarico fu revocato e l'impianto Titan Gesellschaft fu chiuso.

IXL - Il DIPI non poteva aver considerato il know-how di Titan Gesellshaft esente da rischi.
Rischi grossi per giunta, che in seguito avrebbe pagato così cari, da far sembrare un lieve incidente di percorso i guai alla messa in marcia che erano ipotizzabili col processo via cloro. DIPI doveva considerare la tecnologia via solfato il male minore rispetto ad un know-how prodotto in casa, nel quale doveva riporre una fiducia assai scarsa a giudicare da che cosa gli veniva preferito.
È proprio questo il punto: perché così scarsa?
Motivi di fatto non dovevano averne: nell'esecuzione della ricerca era stato prodotto un ampio spiegamento di uomini e mezzi.
Il pigmento ottenuto era stato analizzato sia a Novara sia alla NJZ. Il management del progetto era stato condotto in modo attento ed era stato sottoposto ad un doppio controllo da parte di americani ed italiani.
Erano stati commessi degli errori, li abbiamo ampiamente ricordati, ma erano stati corretti in tempo e non avevano influito negativamente sul risultato finale.
Se peraltro agli occhi acuti dei tecnici del DIPI il processo sviluppato a Novara appariva pieno di pecche, perché con la loro autorevolezza di tecnici e con l'autorità del Capo Divisione non avevano imposto revisioni profonde ed obiettivi più severi, se ve ne erano?
Perché non si sono comportati come la NJZ quando le cose andavano male ed aveva con forza richiesto che vi si ponesse rimedio in un lasso di tempo ragionevole?
Perché se DIPI aveva buone ragioni tecniche non le aveva fatte valere?
L'unica spiegazione possibile è che la sfiducia nel lavoro del Donegani non fosse basata su qualche cattivo risultato o qualche comportamento ritenuto scorretto, ma fosse nient'altro che un pregiudizio.

XL - La questione delle materie prime è la più seria.
Se il processo via cloro anziché ilmenite richiede rutilo minerale che sul mercato non si trova non ha veramente possibilità di sviluppo.
L'indisponibilità era però assoluta?
No: abbiamo visto che in Australia esistevano ancora miniere disponibili e probabilmente anche altrove, bastava forse cercarle.
Abbiamo anche visto che dopo pochi anni dalla conclusione del progetto era diventato disponibile il rutilo artificiale che poteva essere impiegato nel processo via cloro.
Un imprenditore che disponga di un processo da cui può trarre ottimi utili, come ve ne traeva Du Pont, non si arrende così facilmente di fronte a difficoltà sulle materie prime, non si mette l'animo in pace consolandosi con l'idea che il processo non è valido.
L'imprenditore cerca di aggirare gli eventuali ostacoli, con accordi commerciali, con un supplemento di ricerche. Gioca insomma le sue carte, perché in questo caso si trova nel pieno dell'esercizio della sua funzione.
Fa tutto, anche costringere i propri uomini a fidarsi di chi, forse per inveterato pregiudizio, è stato finora guardato con un certo sospetto.
Di sicuro non si fa scudo di questo genere di difficoltà per rinunciare ad agire.

XLI - Abbiamo ormai concluso il nostro cammino. Abbiamo ripercorso i fatti accaduti, abbiamo ricordato gli errori e come abbiamo saputo farvi fronte.
Abbiamo vissuto di nuovo la frustrazione dei momenti peggiori e riassaporato la soddisfazione dei risultati raggiunti.
Abbiamo avuto la fortuna di vivere l'esperienza unica di far parte di una organizzazione moderna, efficiente e orientata ai risultati.
Abbiamo riconosciuto i meriti di chi quell'organizzazione l'ha voluta e creata.
Purtroppo abbiamo anche dovuto constatare che, nonostante le premesse estremamente favorevoli, il bilancio alla fine si è concluso con un insuccesso industriale.
Ce ne siamo chieste le ragioni e ci siamo resi conto che per decretare tale insuccesso di ragioni vere non ve n'erano.
Non solo, chi avrebbe dovuto lavorare per il successo nel suo stesso interesse, è rimasto vittima di atteggiamenti di sfiducia preconcetta e di placida acquiescenza a spiegazioni di comodo.
È emersa inoltre la scarsa capacità a confrontarsi con i problemi manageriali che sorgono a valle di un progetto di ricerca, quali la valutazione del know-how e l'approvvigionamento di materie prime.
È emersa infine una tendenza all'inazione, a lasciar cadere qualunque stimolo a innovare, specialmente se proveniente dall'esterno, l'incapacità di assumersi qualunque rischio per quanto piccolo e ragionevole, in poche parole l'incapacità ad essere imprenditori.
Chi ignora la storia è condannato a riviverla.
Per evitare che qualcuno riviva questa storia di successi esaltanti e di profonde frustrazioni, cerchiamo di far nostra una massima: prima di investire soldi in ricerca, assicuriamoci della tempra di chi sarà poi chiamato a decidere sullo sviluppo commerciale dei risultati, altrimenti comunque vada la ricerca saranno spese senza benefici.

(1) Il biossido di titanio [TiO2] è una polvere cristallina incolore, tendente al bianco; in natura è presente in forme cristalline diverse, il rutilo, l'anatasio e la brookite, colorate a causa di impurità presenti nel cristallo.
Il rutilo è la forma più comune: ciascun atomo di titanio è circondato ottaedricamente da sei atomi di ossigeno; l'anatasio ha struttura tetragonale, più allungata rispetto a quella del rutilo, mentre la brookite ha struttura ortorombica.
(2) Nel processo industriale per la produzione del TiO2 il rutilo viene scaldato con cloro e carbon coke a 900 °C, con formazione di tetracloruro di titanio (TiCl4), che è volatile e può così essere separato da ogni impurezza.
Il TiCl4 viene riscaldato con O2 a 1.200 °C; in tal modo si ottengono TiO2 puro e Cl2, che può essere riutilizzato.
(3) L’interesse dell’industria chimica, Montecatini inclusa, nel prodotto biossido di titanio è per la sua qualità di bianco coprente, molto migliore di altri pigmenti bianchi minerali allo zinco e al piombo, dovuto al fatto che ha un indice di rifrazione molto più alto di quelli.
Gli impieghi del prodotto sono molto diffusi per rendere bianchi il cemento, le materie plastiche, la gomma, la carta, le pitture murali. Quando lo si usa nelle pitture lo si denomina comunemente «bianco di titanio». Come opacizzante è impiegato anche nelle vernici colorate, nella carta e nelle fibre tessili. Aggiunto ai materiali ceramici ne migliora la resistenza agli acidi.
Il biossido di titanio è poi utilizzato nella cosmesi come colorante e filtro solare. Note sono inoltre le sue proprietà catalitiche: attivato dalla luce solare, accelera la distruzione delle sostanze inquinanti operata dall’ossigeno atmosferico.
Sfruttando questa proprietà si possono ottenere materiali che, distruggendo i composti organici depositati su di essi, hanno proprietà autopulenti e disinquinanti.
(4) Make or buy? Fare da sé una tecnologia o comprarla da chi già la possiede? La mentalità autarchica è spostata al 100% sul «make», mentre quella più pragmatica del libero mercato prende in considerazione il «buy», scegliendo di volta in volta secondo le convenienze.
Anche questa posizione può essere estremizzata, scegliendo il «buy» in ogni caso. Quest’ultima, nel corso del progetto, si rivelerà essere la posizione della Montedison.