Note e documenti

La facciata della Collegiata di Domodossola

di Paolo Volorio
[in BSPN LXXXV (1994)]

La primitiva Collegiata (1), dedicata ai santi Gervasio e Protasio sin dal 1001 (2), sorgeva nei pressi del castello cittadino, in un sito molto distante da quello ove si trova oggi.
Orientata secondo i dettami liturgici, era rivestita con pietre bicolori disposte a fasce alternate, come nella trecentesca chiesa gotica di S. Francesco, trasformata a metà Ottocento in un palazzo di civile abitazione (3); il portale in serpentino nero (4) era probabilmente preceduto da un portico con colonne poggianti su due leoni lapidei (5).
Verso la metà del '400, al tempo della dominazione viscontea, i lavori di ampliamento al trecentesco castello cittadino ed alle fortificazioni comportarono la demolizione della parrocchiale perché addossata alle mura del fortilizio. Dalle autorità cittadine fu concessa tale demolizione purché i Visconti si impegnassero a finanziare l'immediata costruzione di un nuovo tempio; nel frattempo fu utilizzata la vicina e grandiosa chiesa dei Francescani.
Si scelse un sito periferico, verso nord, lontano dal castello; pare, nei pressi del maschio delle mura (6), per evitare, in futuro, altre coatte demolizioni. Si diede inizio ai lavori tra il 1450 ed il 1460.
Forti delle assicurazioni del governo di Milano, passato dai Visconti agli Sforza, i popolani domesi fecero predisporre il progetto di una grandiosa chiesa a tre navate, con cappelle laterali ed abside poligonale; le dimensioni complessive coincidevano con quelle dell'edificio attuale.
Gli Sforza tuttavia non mantennero fede agli impegni presi dai loro predecessori ed in particolare da Filippo Maria Visconti e non fornirono i fondi promessi, cosicché la popolazione dovette ripiegare sui propri mezzi. Le fondamenta erano state gettate ed era impossibile ridimensionare planimetricamente l'edificio: si dovettero dunque proseguire i lavori, però con notevole lentezza e risparmiando sui materiali e sulla qualità delle strutture.

Nei resoconti delle visite pastorali sta deprecato il lento procedere dei lavori, che immiseriva l'insieme dell'edificio: ancora un secolo dopo, i vescovi raccomandavano di completare l'impianto architettonico della fabbrica, di livellare il pavimento, di aprire porte laterali e di costruire un portichetto davanti all'ingresso principale, analogo a quello che era esistito sulla fronte della primitiva chiesa.
Nonostante le notevoli dimensioni, l'interno, oltre che della cronica incompiutezza, soffriva di ristrettezza di spazio a causa del gran numero di altari (fino a diciassette) collocati nel tempo lungo le pareti laterali.
A prescindere dall'impianto costruttivo, ben più deficiente era la qualità dei materiali e la loro posa in opera: proprio queste carenze, due secoli dopo, determinarono il crollo dell'edificio.

Di quella prima fabbrica si sono conservate l'abside e la facciata, entrambe tuttavia sopralzate. Lo sviluppo planimetrico era di tipo basilicale, rettangolare a tre navate separate da due file di colonne, con cappelle laterali. L'ingresso, unico in facciata, era costituito dal portale in serpentino della primitiva chiesa. Più bassa rispetto all'edificio attuale, aveva il soffitto a cassettoni sostenuto da tre arconi trasversali alla nave centrale. Laterale all'edificio il cimitero, poi soppresso in seguito all'editto di Saint-Cloud del 1810.
La collegiata fu aperta al culto verso il 1470 (7); sei anni dopo fu ufficialmente consacrata.
Il campanile risulterebbe edificato ex novo a lato del tempio, e non già modificando il maschio delle mura, come vorrebbero alcuni storici.
Verso il 1643, con la venuta dell'arciprete Giovanni Leidi, si costruì finalmente il protiro antistante l'ingresso, in ottemperanza alle sollecitazioni della Curia. Opera dell'impresario Bernardino Lazzaro, capomastro della valle d'Intelvi molto attivo in Ossola, il portico nel 1658 subì leggere modifiche nella copertura, e nel 1666 fu rinforzato con una catena metallica atta a contenere la spinta dell'archivolto.

La decorazione pittorica si estende sulla volta a botte e lungo due stretti riquadri laterali: a destra è rappresentata S. Valeria che reca in braccio i santi patroni della città Gervasio e Protasio, suoi figli gemelli; a sinistra è effigiato il padre, S. Vitale, in tenuta militare, con la spada; sulla volta sta raffigurata la Ss. Trinità con volo d'angeli, alcuni di essi musicanti. Vi lavorò il pittore vigezzino Carlo Mellerio tra il 20 agosto 1649 e il 1 gennaio 1651. Nel suo complesso, è pregevole opera locale (8).

Per le ragioni suesposte la chiesa denunciò, verso la metà del XVIII secolo, instabilità nelle strutture, e ben presto i timori si tramutarono in pressanti preoccupazioni per l'incolumità stessa dei fedeli. In tale senso si espresse in una sua comunicazione il Capitolo, e, forse anche in seguito a ciò, qualche anno più tardi, i domesi Ruga e Facini, in collaborazione coi canonici Antonioli e Grazioli rappresentanti del Capitolo, costituirono una commissione che decidesse se rimediare all'emergenza con semplici riparazioni, o non piuttosto ricostruire ex novo la Collegiata.
In entrambi i casi l'onere finanziario si presentava di entità insopportabile per la sola comunità. Si ricorse dunque al neoeletto vescovo novarese, monsignor Buronzo del Signore, che incaricò l'architetto torinese Matteo Zucchi di fornire un parere tecnico (9). E questo fu perentorio: unico rimedio per la vecchia fabbrica era la demolizione completa delle parti strutturalmente non più affidabili (la gran parte) e la loro edificazione ex novo. Lo Zucchi approntò il progetto di ristrutturazione, approvato poi da una commissione appositamente istituita il 15 aprile 1792. La spesa sarebbe stata quasi completamente coperta dal generosissimo contributo vescovile (circa 60.000 lire). Il lavoro venne affidato al capomastro Vittore Pianezza di Casal Zuigno (Varese), che si impegnò a demolire le strutture non più affidabili, a ricostruire entro il 1793 i supporti della volta, ed a completare quest'ultima, le coperture e le rifiniture interne entro l'anno successivo. Erano previsti per il coro, senza apportarvi modifiche, un più solido collegamento con le restanti strutture, e per la fronte solamente alcuni ritocchi. Dunque, più un progetto di riparazione che di radicale rifacimento.
Senonché, nel momento stesso in cui si pose mano ai lavori, la vetusta costruzione si afflosciò su sé stessa: prima a crollare fu la navata destra - quella fiancheggiata dall'attuale via Pellanda - la cui parete era stata abbondantemente sforacchiata per l'aggiunta nel tempo di un gran numero di cappelle private; vi tenne dietro il cedimento della navata centrale e, qualche giorno dopo, quello della navata di sinistra. Dell'edificio di tre secoli innanzi sopravvivevano ormai soltanto la facciata, il coro, tre cappelle e qualche isolato moncone del muro perimetrale.
Liberato il sito dalle macerie, lo Zucchi ebbe modo di valutare la situazione: il crollo era stato causato proprio dal collasso delle arcate delle cappelle della nave destra, che oltre ad indebolire la compagine muraria, erano state costruite con poca cura. Ciò non ostante le fondazioni si prestavano ottimamente alla riedificazione di un'altra chiesa, purché - come pretese l'architetto - le numerosissime confraternite rinunciassero ad avere ognuna la propria cappella, in modo da consentire maggiore libertà progettuale.

Il nuovo progetto, pur interessando radicalmente le strutture murarie, anziché risultare un vero e proprio ridisegno globale organico ed unitario, appariva frutto di compromessi - non solo in sede progettuale, ma anche di realizzazione - fra le idee dell'architetto e le esigenze della committenza.
Così, almeno, informa il Pellanda: Ai quattro grandi pilastri già progettati per sostenere il centro [l'architetto] diede maggior sviluppo in altezza e solidità, e ne aggiunse altri quattro, due appoggiati alla facciata e due appoggiati al presbiterio. Per sostenere le navi laterali ne progettò altri quattro per ogni navata [...] Intanto l'architetto, visto che l'opera riusciva bene, consigliò di alzare anche il presbiterio, e così si diede mano anche a questo lavoro [...] La Confraternita di S. Carlo fu la prima a far eseguire la propria Cappella in stile colla grandiosità della nuova Collegiata e piacque così che si abbandonò l'idea di altre piccole cappelle per farne solo tre uguali a quella di S. Carlo(10).

Da queste affermazioni si dovrebbe dedurre che lo strano sviluppo planimetrico dato alla chiesa - connubio tra un organismo longitudinale e uno a nucleo centrale - non sarebbe riconducibile ad una concezione archetipa dell'architetto.
La cosa appare molto strana, poiché siamo a conoscenza che lo Zucchi redasse parecchi disegni particolareggiati (facciata compresa) della nuova chiesa, il che induce a supporre l'esistenza di un progetto organico, e non disarticolato quale lascia intendere il Pellanda; il quale peraltro si contraddice, per esempio, al riguardo della rinuncia a una propria cappella da parte delle altre confraternite, non rammentandosi d'avere egli stesso affermato che tale fu la clausola preliminare e inderogabile posta dall'architetto.
Un'adeguata ricerca d'archivio (che non rientra negli scopi del presente studio) potrebbe forse chiarire questi punti oscuri per una ricostruzione più ampia della vicenda.

I lavori durarono più del previsto, e solo nel 1795 vennero armati i tre cieli della nave principale, poi realizzati con un anno di lavoro. Successivamente si edificarono le cappelle, venne pavimentato l'interno, allargato l'ingresso principale, a cui si aggiunsero altri due accessi laterali, e si aprì il finestrone semicircolare nella fronte.
Nel 1797 l'interno veniva tinteggiato, ed il pittore vigezzino Lorenzo Peretti senior diede inizio agli affreschi della volta della nave maestra: uno dei più estesi cicli decorativi realizzati da questo artista, ed anche uno dei più belli(11).
La facciata, progettata dallo Zucchi in quello stesso stile neoclassico a cui era improntata tutta la chiesa, e la cui esecuzione avrebbe comportato la distruzione del portichetto seicentesco, tardò ad essere realizzata, e per carenze finanziarie (per la ricostruzione della chiesa si spese assai più del previsto), e a causa dei sopravvenuti rivolgimenti politici dell'epoca napoleonica.


[Leggi l'intero testo di
«La facciata della Collegiata di Domodossola»]
[Guarda le immagini]

(1) Queste note sono tratte da L. PELLANDA, La collegiata di Domodossola, Novara, 1943, pp. 40-41.
(2) Per le pergamene che lo testimoniano e per il primitivo culto cristiano in Ossola: G. Gaddo, «Dalle origini del Cristianesimo nell'Ossola alla prima Chiesa Collegiata», in Illustrazione Ossolana, IV (1962), n.s.; n. 2, pp. 3-8; n. 3, pp. 3-7. Padre Pietro Prada, in un suo breve saggio sulla storia della Collegiata (cfr. più avanti) ritiene esistente la chiesa già verso l'840 d.C.; cfr. P. PRADA, «La Chiesa collegiata di Domodossola», in Oscella, periodico mensile del Collegio Mellerio Rosmini in Domodossola, I (1893), n. 9 bis, pp. 464-473 (numero speciale per celebrare il cinquantesimo di sacerdozio dell'arciprete Francesco Antonio Maderni).
(3) Angela Preioni Travostino ha con minuzia indagato le ultime vicende della chiesa di S. Francesco, a partire dalla fine del 700 sino all'inizio dei restauri operati dalla Fondazione Galletti per adibire la costruzione a museo. Cfr. A. PREIONI TRAVOSTINO, «Ultime vicende della Chiesa di S. Francesco di Domo», in Oscellana, Rivista illustrata della val d'Ossola", VIII (1978) n. 1, pp. 1-13.
(4) Il Pellanda affermò per primo essere quello della chiesa attuale.
(5) Uno di essi esiste ancora, ed è conservato nel cortile, detto "dei marmi", del cinquecentesco Palazzo Silva a Domodossola.
(6) Alcuni storici ritengono assodato che il campanile della Collegiata attuale sia nient'altro che il maschio delle mura. Ciò ritengo impossibile perché, per ragioni tattiche, il mastio di una cerchia fortificata costituisce il nucleo del castello, e non si trova mai al suo opposto; poi perché i caratteri costruttivi della muratura non sono assolutamente ascrivibili al '300, bensì al '500, epoca nella quale il campanile può benissimo essere stato realizzato.
(7) P. Prada, op. cit., p. 470, afferma che la chiesa venne «officiata per i fedeli nel 1470; mentre l'atto di consacrazione lo troviamo in data 12 gennaio 1486».
(8) Queste e più dettagliate notizie sul portico in T. BERTAMINI, «Il portico della chiesa dei SS. Gervasio e Protasio di Domodossola», in Oscellana, XVIII (1988), n. 4, pp. 249-254, e prima di lui, L. PELLANDA, op. cit., p. 16. Per Carlo Mellerio si veda quanto ne dicono Beatrice Canestro Chiovenda in B. CANESTRO CHIOVENDA, «La valle dei pittori», in Invito alla Valle Vigezzo, Domodossola 1970, pp. 279-330 e soprattutto Tullio Bertamini in T. BERTAMINI, «Carlo Mellerio, un pittore del Seicento», in Oscellana, XX (1990), n. 2, pp. 129-142.
(9) Le prime notizie su Matteo Zucchi sono state raccolte da C. Brayda - L. Coli - D. Sesia, «Catalogo degli ingegneri ed architetti operosi in Piemonte nel Sei e Settecento» in Id., «Specializzazioni e vita professionale nel Sei e Settecento in Piemonte», in Atti e Rassegna tecnica della Società degli ingegneri e architetti di Torino, n.s., XVII (marzo 1963) n. 3, pp. 73-173; le note sullo Zucchi sono a p. 142). Giovanni Matteo Zucchi, nato a Centallo nella seconda metà del XVIII secolo; approvato "architetto civile" alla R. Università di Torino il 1° aprile 1774 con la presentazione di un progetto di palazzo; con patente del 9 maggio 1788 nominato "architetto onorario". Sue opere: Tavole di riduzione dal sistema antico al moderno sistema metrico (1788) e Reciproca corrispondenza tra il sistema metrico e le misure ed ipesi del Piemonte (Asti, 1807); di lui sono noti i progetti architettonici per la parrocchiale di Domodossola, per il rifacimento, poi non attuato, di una parte dell'antico Duomo di Novara; cfr. planimetria (datata 1792) in M. Dell'Omo, «L'antico duomo di Novara prima dell'intervento di Antonelli: appunti per un'indagine», in Il secolo di Antonelli, Novara 1798-1888 (a c. di D. Biancolini), Novara 1988, pp. 190-202 (planimetria a p. 197) e per la parrocchiale di S. Nicolao a Mombaldone (Asti). Recentemente (2008) sono stati esposti nella mostra «I disegni di Giovanni Matteo Zucchi, un architetto fra Sette e Ottocento a Vercelli», i disegni da lui realizzati durante la sua attività nella città di Vercelli.
(10) L. Pellanda, op. cit., pp. 107-108 passim.
(11) Su Lorenzo Peretti Senior (Buttogno 1774-1851), uno dei massimi artisti vigez-zini ed ossolani, si veda lo studio di T. BERTAMINI, «Lorenzo Peretti Pittore (1774-1851)», in Oscellana, IV (1974), pp. 171-214, che, pur ricostruendo in modo sufficientemente completo l'attività dell'artista, ne ha trascurato tuttavia un'adeguata collocazione critico-filologica nel panorama della pittura neoclassica italiana. Ancora si veda B. CANESTRO Chiovenda, op. cit., pp. 305-309.