Bollettino Storico per la Provincia di Novara - XCVIII (2007)

Perché solo e tutto Morandi per i cento anni del Bollettino storico

Le prime timide speranze di costituire a Novara un’accolta di studiosi venivano manifestate tra alcuni pochi e in segreto, come tra cospiratori i disegni di una congiura. Si ondeggiava tra la fondazione di una società di cittadini colti, quella di un giornale letterario o di una rivista storica. Stando alle parole del Viglio, si era agli albori: entro una specie di enclave culturale cittadina, cent’anni fa prendeva corpo, tra presunzione e rischio, l’iniziativa pressoché istituzionale del Bollettino Storico per la Provincia di Novara, diretto da Giovanni Battista Morandi.
Ad incentivare ulteriormente l’esordio di tale dignitosa rivista servì il successo – nel giugno 1906 – della Miscellanea storica, pubblicata a cura degli stessi Morandi e Viglio: una raccolta di scritti d’argomento novarese in onore dell’avv. Raffaele Tarella, il colto Bibliotecario della Civica, giunta alle stampe grazie ai denari raccolti dalle adesioni di singoli cittadini. Da ciò il Viglio si sentì indotto (a suo dire, ingenuamente o avventatamente) ad inoltrarsi al di là della cerchia dei cittadini dotti, rivolgendo all’opinione pubblica, nel successivo dicembre, Un invito dalle pagine de Il giornale di Novara: mirava ad ottenere un responso che avallasse o meno la ventilata progettazione della vagheggiata rivista storica.
Impensato ed inatteso fu il passaparola tra tutti i giornali novaresi, grazie ai quali si poté accertare il diffuso parere favorevole all’iniziativa; vi si aggiunse, essenziale, l’amicizia che legava uno del gruppo (Federico Giolli) all’editore Giuseppe Cantone, che con grande disponibilità si assunse il compito rischioso della pubblicazione.
L’anno successivo, l’edizione di quel primo numero fu un trionfo di famiglia, e per il Morandi la conferma che era valida l’impostazione da lui data al “suo” Bollettino Storico: egli non intendeva affatto che vi si narrasse la storia con l’animo vuoto di quegli studiosi che prendono ciò che capita, sciorinando i pettegolezzi di un amore regale, o ritengono sia un solenne contributo l’appurare quale fosse il tabacco da fiuto prediletto da Pio IX (MARIO BORI). Tanto più che l’arrivismo, l’esibizionismo e ogni sorta di cialtroneria urtavano la sua sensibilità, il suo odio erano la contraffazione, la finzione, la volgarità. La verità – fosse essa verità storica, scientifica o morale –, l’arte e la natura nelle loro manifestazioni più alte e più espressive erano alimento e gioia al suo intelletto (A. VIGLIO); Non era uno studioso di cose locali, tutto chiuso nella cerchia delle mura cittadine, bensì in relazione ai fatti ed agli istituti della storia generale (A. LIZIER).
Tale virtuosismo derivava al Morandi anche dalle incombenze che gli furono “affidate” (e qui schematicamente richiamate):
– partecipazione alla catalogazione delle opere presenti nelle due Biblioteche Civica e Negroni, quando il Consiglio comunale ne decretò (1904-1905) la riunione;
– compilazione (assegnatagli il 24.12.1906) dell’inventario del Museo Civico per la sua consegna all’Amministrazione della Biblioteca Negroni;
– inventariazione (1908) degli oggetti artistici esistenti nella basilica di San Gaudenzio, per la Fabbrica Lapidea;
– analoghe operazioni di inventario, nello stesso anno, per l’Ospedale Maggiore e per il Capitolo della Cattedrale.
Non stupisce quindi che il 14 aprile 1911, in prima votazione, sia stato eletto direttore del Museo Civico (aperto solennemente il 16 gennaio 1910) e dell’annesso Archivio storico (anche questo da lui riordinato).
Ma ben più significativo risulta questo commento del Viglio: Nel contatto quotidiano di libri, di documenti e d’oggetti cari a tanti valentuomini d’altri tempi, ebbe modo di acquisire una compiuta conoscenza di tutto quel patrimonio di erudizione che ne alimentò il fervido amore per le memorie cittadine.
Vi si aggiunga l’apprezzamento – esaustivo – di Ferdinando Gabotto per quel suo discepolo all’Università di Genova:
Non che la sua coltura storica fosse tutta ristretta nella cerchia della sua città o della provincia; egli non era uno di quegli eruditi prettamente locali che sono informatissimi di ogni minutaglia storica od archeologica della lor terra, ma nulla scorgono al di là, nulla sanno degli avvenimenti e dei fenomeni generali, con cui i parziali devono venir connessi perché siano posti nella loro vera luce ed intesi esattamente nella loro pienezza... Sapeva rintracciare bene e senza esitazione le fila, talvolta poco visibili, di qualsiasi evento o costume cittadino con altri remoti, coordinare il materiale documentario di Novara con quello delle citt vicine e lontane, di ogni tempo e di ogni altra regione. Ne considerava il passato sotto ogni riguardo, dell’agricoltura e dell’economia, del costume e del diritto, dell’arte, della moneta, della topografia, lungo i secoli fino ai tempi della nostra rivoluzione nazionale.
Non meno qualificante fu l’attributo di gentiluomo con cui amici e conoscenti rimpiansero l’eroe concittadino (nato a Novara il 3 dicembre 1876), loro compagno dalle elementari alla licenza liceale, poi alunno interno del Collegio Caccia di Torino negli anni universitari, entusiasticamente arruolato nella milizia alpina nell’ottobre 1897, terminando il periodo obbligatorio del servizio militare col grado di sottotenente; richiamato sotto le armi allo scoppio della guerra mondiale ed impegnato dapprima al Tonale quale ufficiale permanente degli alpini, e poi fatto capitano della IX compagnia di fanteria sul Carso, caduto il 15 novembre 1915 colpito da un proiettile nemico.
Troppo franco, troppo ardito e noncurante del pericolo, camminava lungo le trincee incoraggiando i soldati: queste le parole che sento dire dai soldati della IX compagnia; così scriveva un amico ufficiale alla famiglia del Caduto.
Dunque franchezza, ardimento e determinazione: non si trattava di occasionali encomiastiche attribuzioni, bensì era l’inequivocabile constatazione della connotazione mentale, connaturata o acquisita, dello storico Morandi, che non “recitava” le vicende umane altrui se non avendole nella propria interiorità esperimentate, valutate, giudicate.
Ed è quanto possiamo desumere da questi stralci di lettere del Morandi inviate dal fronte ai famigliari, scritte seduto su un tronco, su uno sperone roccioso, avendo per scrittoio le ginocchia, dalla prima del 24 maggio all’ultima, “conclusiva”, del 3 novembre, con lo strano conturbante commiato:
Addio carissimi amici, addio, state sani, abbiatevi cura e riguardo e, pensando a me, pensatemi forte, più vivo che mai. Il mio battaglione è un bello e forte battaglione di uomini che vanno dai venti ai trentatre anni, fiore di gente in gran parte desiderosa di battersi, sia per fiaccare la prepotenza austriaca, sia per affrettare il ritorno della pace. Non impiegato qui per l’eventuale ritirata del nemico, o per l’impossibilità di cozzare contro i forti austriaci al di là del Tonale [...] ma vi avverto di non sperare che noi siamo qui per scopare le camerate e fare la guardia ai fili del telegrafo...
Quando sarà ora, andremo avanti e tutta l’Italia ci seguirà: io sono contento di vivere e di darmi tutto, se occorre, all’opera santa. Per fare questo con la maggior serenità e col più grande profitto, bisogna che l’anima del paese sia con noi, non si scoraggi, non lasci impallidire il tono delle manifestazioni patriottiche, bisogna sopratutto che le donne, le nostre adoratissime donne non abbiamo lagrime, nè rimpianti per noi, ma fermezza di cuore e fierezza di propositi fino alla sublimità del sacrificio...
Noi leggemmo in fogli italiani e stranieri corrispondenze intese ad illustrare la nostra azione in questo settore, che ci hanno stomacato; veri romanzi, che sono un inganno ed una malvagia azione. Non è con la menzogna che si esaltano gli spiriti e tutto ciò che fanno i nostri soldati qui, anche solo in rapporto alle fatiche ed agli strapazzi, è già così alto e nobile e bello, che non occorre narrare di battaglie non avvenute, di scontri non accaduti, di sterminio di nemici insussistente per significare al pubblico che il soldato d’Italia compie in ogni occasione il suo dovere. Dunque tara, e molta tara...
La vita, l’attenzione del paese sono in gran parte rivolte alla frontiera, ma quant’altre cure, quante opere urgono nell’interno che non si risolvono nè con un colpo di cannone, nè con una fucileria! Noi possiamo combattere, resistere, avanzare solo se dietro a noi le leggi mantengono intatto il loro impero, sono osservate e rispettate; se dietro a noi non cessa l’attività silenziosa e disciplinata di ogni ordine di cittadini applicati alle più varie e necessarie mansioni, se dietro a noi, insomma, il possente organismo dello stato, di cui son parte i piccoli e grandi organismi pubblici e privati, non subisce alcun arresto, non soffre di avarie e procede sicuro ed inalterato nell’opera gigantesca che gli compete. Dunque, ognuno al suo posto: a casa i savi, qui i rompicolli, i disperati della vita, gli entusiasti. Voi lavorate, noi combattiamo; voi producete, noi consumiamo; voi dovete vivere per la vita della nazione, noi, occorrendo per lo stesso motivo, dovremo morire...
...l’uomo davvero la più brutta bestia che popoli il creato; quando cominciano le fucilate, ogni preoccupazione scompare, la pellaccia non si valuta più neanche due soldi, e non c’è altra cura che quella di picchiare più forte per vincere, nella quale operazione si cerca di impiegare la miglior buona volontà e la miglior allegria del mondo...
Le pallottole, si sa, sono cieche, ma quando non sono molte, si può passare loro in mezzo con una certa sicurezza e con molta probabilità di non ospitarne qualcuna nel petto...
Le truppe qui operano in un piano che è un mare di fango... Posto d’onore sì, ma posto d’onore perché qui la morte dispensa in più larga misura le sue grazie, non perché sia a noi affidato compito speciale che possa esserci cagione di orgoglio...

Perché dunque solo e tutto il Morandi per il centenario del Bollettino? Si risponde con metafora, apparentemente peregrina, ma concettualmente appropriata: il Morandi funge da insegna araldica per una rivista – qual è la nostra – scesa bravamente in campo storiografico tra coeve altrettanto brave pubblicazioni periodiche; da lui accreditata per qualsivoglia competizione e coi migliori auspici di una lodevole tenuta. Quali poi ne fossero le credenziali, ognuno può verificarle e ponderarle, servendosi della rapsodia approntata nelle pagine di questo volume.